Sarconi. La rivincita della Piccola Mesopotamia.

Così è chiamata la zona del paese, stretta tra due corsi d’acqua. Ed è proprio la posizione che rende unici e davvero buonissimi i legumi che qui vengono prodotti.

E per favore non si dica che parlando di fagioli a nessuno viene in mente l’unica associazione dalla quale nessuno, scherzando, riesce a sfuggire. E perciò sgomberiamo il campo dagli equivoci con il migliore e più decoroso degli esempi possibili e diciamo che sì, i fagioli sono come i falsi amici: parlano di dietro.
Gli abitanti di Sarconi, invece, sono gli unici al mondo che non scherzano sui fagioli.
Non ci riescono neanche un po’; e se chiedi dell’esistenza di qualche proverbio spiritoso sugli effetti travolgenti di questo stupendo legume che fu chiamato “la carne dei poveri”, non esce un ragno dal buco.
In effetti Sarconi, paesino della lucana Val d’Agri, diventato famoso in Italia e persino fuori dai confini nazionali per i suoi meravigliosi e protetti fagioli, è l’unico posto al mondo nel quale il prezioso legume è la storia di un successo, di una rivincita degli ultimi, di un gruppo di contadini che attraverso l’umiltà propria e quella del frutto delle proprie fatiche è riuscito a emergere dal nulla, pur non vantando concittadini illustri, castelli, dame e cavalieri.
Anzi: gli abitanti di Sarconi erano identificati col termine di “ciuoti”, che si usa affibbiare a tonti, stolti, stupidi e dintorni. Ma Ciuoti è anche il nome di un ecotipo di fagioli che si coltiva a Sarconi.
la rivincita dei Ciuoti, umani e vegetali • che fossero, iniziò subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando i sarconesi indissero il referendum per affrancarsi dal Comune di Molìterno, di cui Sarconi era frazione, che domina dall’alto della collina con le sue torri medievali, la gloria dei suoi artisti e dei suoi generali borbonici. Non c’era dubbio sui risultati:
«In fondo», racconta Luciano Albano, capo del gruppo lucano della Protezione civile che si è distinto di recente nei soccorsi ai terremotati del vicino Abruzzo,”noi eravamo l’unico paese disteso a valle, fra i tanti che
ci circondano dall’alto dei loro colli, in mezzo a due torrenti, con l’umidità a farla da padrone .•. E infatti, anche se si dice sottovoce, i sarconesi venivano chiamati con dispregio “mangia rospi”.
Adesso l’umidità non è sparita, ma vivere in mezzo allo Sciaura e al Maglia, i due corsi d’acqua che racchiudono Sarconi, ha procurato al paese l’appellativo di Piccola Mesopotamia.
Che fa pure ridere, ma è pur sempre una tacca d’orgoglio di un destino ora diverso.
E tutto ciò grazie ai fagioli di cui i sarconesi compresero l’importanza e le potenzialità solo a partire dagli anni ’80.
Fino a non molto tempo addietro il legume, conosciuto già nell’antichità per le sue doti nutritive, era coltivato esclusivamente per consumo familiare o, cosa non rara, impiegato come merce di scambio con altri prodotti
agricoli, spesso extra regionali.
«C’era un certo Melillo Giuseppe che faceva il grossista negli anni ’20», ricorda Pietro Darago, 70 anni, coltivatore di fagioli da quando ne aveva cinque, «ma erano i napoletani che li commerciavano sui mercati regionali.
Di quelli bisognava diffidare, c’era sempre il rischio che tirassero fregature-.
«Fu solo all’inizio degli anni ‘So che si cominciò a pensare di sfruttare la coltivazione del legurne per l’economia del paese», racconta Gerardo Tempone, giornalista e cultore di storia e tradizioni locali, «ma fra noi e il salto di qualità c’era il problema dell’acqua e della proprietà frastagliata. L’acqua dello Sciaura è stata determinante per le qualità uniche del contadini si facevano dispetti ostruendo i canali che passavano da un podere all’altro.
Poi arrivò l’invaso della Val di Sangro e soprattutto l’irrigazione a pioggia che eliminò la guerra», continua Tempone, «e, ancora di più, si fecero avanti i giovani che misero da parte i padri troppo legati a rancori del passato e a metodi ormai superati”.
Pietro Darago ha due figlie femmine che fanno tutt’altro, ma insiste nei campi e sospira con lo sguardo perso fra solfini e borlotti: «Chissà che uno dei generi. ..”.
Pure Domenico Belisario ha due figlie che guardano ad altro, ma è giovane e appassionato e a coltivare fagioli non rinuncerà mai. Sua moglie Angela mostra i gioielli come Cornelia, anche se ci tiene a dire che fa la fiorista: I rossi per pasta e fagioli; il cannellino per gli antipasti di mare. Il riso tondino per il gelato-.
«Ormai eravamo all’attacco», sorride il giovane e intraprendente sindaco di Sarconi Cesare Marte, «mancava un’invenzione che non fosse solamente la diceria messa in giro ad arte da Gerardo che i fagioli nostri avessero
proprietà utili alla virilità».
«l’invenzione fu la Sagra del fagiolo», precisa orgoglioso il presidente della Pro loco Giovanni Tempone; in breve tempo è diventata fra le prime quattro dell’intero Meridione e cresce ancora grazie al lavoro di tutto il gruppo dei ragazzi della Pro Loco,vero motore della sagra e di tante altre manifestazioni estive fra le quali brilla il concorso canoro estivo giunto ormai all’ottava edizione con grande partecipazione di pubblico e i sindaci schierati in prima fila a sostenere i concorrenti del proprio paese.
Per gli amanti delle novità, quest’anno la Sagra, che apre i suoi battenti a metà di questa settimana, ripropone con successo il gelato di fagioli. Che è buonissimo.

Di Gugliemo Nardocci
Famiglia Cristiana n.34/2010

Grazie a http://www.sarconiweb.it dove è possibile consultare l’articolo
Foto: proloco Sarconi

Sarconi- PZ (basilicata) e la sagra del fagiolo

Sarconi nella valle dell’Agri, in Basilicata, è una della sagre più importanti di Italia. Ha avuto molti riconoscimenti ed è meta di visitatori, giornalisti, gastronauti – Ogni anno ad agosto, il 18 e 19, si svolge la manifestazione che Basilicatanet definisce così:
“I Fagioli di Sarconi, marchio IGP dal 1996, sono caratteristici poichè fortemente legati all’ambiente di questi territori dove la disponibilità di acqua, e particolari condizioni ambientali come le basse temperature estive permettono la produzione di fagioli di elevata qualità assolutamente distinguibili dalle altre varietà esistenti.

Un percorso tra le suggestive strade del centro storico per scoprire, aiutati dalle didascalie, tutte le 17 varietà ecotipiche del fagiolo locale, la loro storia e il legame col territorio. Un tour gastronomico per assaporare tutte le pietanze, rigorosamente a base di fagioli, preparate dai ristoratori della zona. In più in ogni piazza si potranno conoscere i segreti di un antico mestiere, dalla lavorazione della ceramica a quella del vimini e del legno.”
Per intuire l’atmosfera della festa posto questo video:


The Beans’ Place from Leonardo Dalessandri on Vimeo.

Lingue e dialetti in Basilicata

Non esiste il dialetto lucano ma i dialetti lucani. Esiste cioè un pendolarismo tra vari universi linguistici che hanno coabitato per secoli, e che esprimono ancora oggi ciascuno una mentalità, una letteratura e condizioni sociali riconducibili alla stessa terra madre. Il profilo linguistico della Basilicata è sensibilmente frammentato, date le differenti vicende storiche che l’hanno attraversata, ma non esistono dei veri e propri confini dialettali: siamo in presenza, semmai, di un grande “ipersistema linguistico”, nel quale l’isolamento geografico e di conseguenza culturale hanno generato l’arcaicità ed insieme la vitalità delle forme. La loro individualità e molteplicità è una ricchezza per la regione, che ha saputo coltivare e tenere unite attraverso
i secoli lingue e tradizioni diverse. Per comprenderne meglio le particolarità, è opportuno fare un breve excursus socio-linguistico.

La storia dei popoli della Lucania iniziò tanto tempo fa, nell’VIII secolo a.C., quando i Greci sbarcarono nella

parte meridionale della regione. Qui fondarono alcune città, divenute presto floridi centri della Magna Graecia: Metaponto, Siri (Nova Siri), Turi (nei pressi di Sibari, in Calabria), Heraclea (Policoro), Pandósia (Anglona). Perciò il patrimonio linguistico greco nella Basilicata meridionale è considerevole, e si manifesta soprattutto nel lessico e nella toponomastica dialettale dell‘area metapontina. Molte sono, infatti, le parole di origine greca, tra cui: ì lágënë (le lasagne), che derivano dal greco λάγανον; u krúëpë (il letame) < κόπρος; cítrënë (giallo, pallido) < κίτρινοs. Nel 198 a.C. le città greche e i Lucani si sottomisero al dominio dei Romani, che fondarono colonie a Forentum (Forenza) e Venusia (Venosa), ma anche a Pesto (Paestum), Buxentum (Policastro Bussentino) nel 194 e Forum Popilii (Polla) nel 132, oggi nella provincia salernitana. Solo Grumentum, costruita in età graccana (133-121 a.C.) all’incrocio delle due importanti vie di comunicazione romane, la via Herculea e la via Popilia, ha influito in maniera costante sulla latinizzazione della regione, alimentata essenzialmente dalla via Appia che, a partire dal secondo secolo, attraversando la parte settentrionale della regione, costituì un importante veicolo di innovazioni linguistiche. Tra le parole risalenti al latino classico troviamo, ad esempio, il termine “cugino”, da consobrinus, che ad Oliveto ed Aliano è u kússëprínë; a vënárrë (avena selvatica, Tursi) < lat. avenaria; kráy (domani) < lat. cras; piskráy (dopodomani) < lat. post cras. Verso la prima metà del 1200 si registra nell’Italia meridionale e in Sicilia una massiccia presenza di immigrati piemontesi provenienti dal Monferrato, e di liguri dall’entroterra savonese. Probabilmente si trattava di gruppi di eretici valdesi in fuga verso terre simili orograficamente alle proprie. Furono accolti da Federico II, che li sottrasse così ai tribunali dell’Inquisizione. Gli idiomi degli immigrati gradualmente si sono fusi con quello degli indigeni e hanno originato una nuova parlata, il gallo-italico. In Basilicata l’influsso settentrionale è notevole nella parte nord-occidentale della regione a Potenza, Picerno, Pignola e Tito; nella parte meridionale a Trecchina. Più tardi, con il dominio degli Angioini sull’intero Regno di Napoli (1266-1442), la lingua locale si arricchisce anche dell’influsso francese.

A varie riprese, infine, dal secolo XV in poi, gli Albanesi sbarcarono nella regione e popolarono i comuni di S.Paolo e S.Costantino Albanese nella valle del Sarmento, e Barile, Ginestra e Maschito nel Vulture. Pur divenendo locali e laboriosi sudditi italiani, queste genti rimasero e sono rimaste albanesi etnicamente e linguisticamente.

Tutte queste popolazioni straniere che, nel tempo, si sono stabilite sul suolo lucano, hanno lasciato le loro tracce nei dialetti parlati oggi nella regione. In Basilicata non esistono dei veri e propri centri urbani di irradiazioni linguistiche, per cui si può assumere, come si diceva sopra, un ipersistema lucano dai molti particolari, comuni all’intera zona o maggioritari. Le lingue della regione appartengono al gruppo dei dialetti centro-meridionali, dove coesistono due sistemi: parlata locale e lingua nazionale (al contrario, ad esempio, di regioni come la Toscana e l’Umbria, dove le parlate locali si avvicinano molto alla lingua nazionale, e dove il concetto tradizionale di “dialetto” non esiste). Se le forme dialettali appartengono tutte ad un ipersistema, le persone che usano tali forme si fanno capire in tutta la regione. In definitiva, esistono un sistema e una norma individuale che per lo più s’inseriscono nel sistema e nella norma collettiva lucana: un chiaromontese, ad esempio, nella vita quotidiana può farsi capire a Melfi – ma non a Bolzano – kwánnë íllë párlë komë l’a fáttë mámmë súyë (“quando parla come l‘ha fatto sua mamma”, cioè in dialetto). I linguaggi di questa vasta area idiomatica, dunque, pur concordando nell’impostazione generale, hanno qualcosa di proprio e di caratteristico, per cui si differenziano in qualche modo l’uno dall’altro. Su tale differenziazione influisce notevolmente e reciprocamente la regione o la località confinante, per i frequenti contatti che hanno i loro abitanti. In dipendenza dell’influsso regionale nei dialetti della Basilicata si hanno tre tipi: nella parte settentrionale il lucano-campano, a est il lucano-appulo e a sud il lucano-calabrese. Quest’ultimo tipo è a sistema vocalico arcaico o latino, mentre gli altri sono a sistema vocalico meridionale moderno.

L’innovazione linguistica del sistema napoletano che cominciava a nascere in Campania già nel I secolo dell’Impero romano si diffonde nel sud dell’Italia grazie alle grandi vie di comunicazione, la via Appia (Roma-Napoli-Taranto-Brindisi) e la via Popilia (Roma-Napoli-Reggio Calabria). Attraverso queste due vie, ma soprattutto attraverso l’Appia, i nuovi registri raggiungono le parti settentrionale, occidentale e orientale della Basilicata sovrapponendosi all’antico sistema vocalico latino, ma non arrivano a toccare la zona lucano-calabrese, rimasta in tal senso più conservativa e arcaica. Il fenomeno più importante introdotto dal napoletano è la metafonia (assimilazione vocalica, dove la vocale tonica di una parola subisce l’influsso della vocale postonica), per cui troviamo capillë per “capelli”, misë per “mesi”, ecc., ma anche il passaggio da -B > -V (bere > vévëre), da D > R con dittongazione (dente > riéndë) e da -nd a -nn (mondo > mónnë).

Nella parte orientale della Basilicata, nella provincia materana confinante con la Puglia e nel Vulture-Melfese, si verificano fenomeni tipicamente pugliesi (ma sempre di derivazione napoletana moderna) come i dittonghi per allungamento che si trovano soprattutto in quelle forme dialettali le cui vocali risalgono alle latine lunghe -i, -e, -o, -u: lat. gallina > a gaddéin, oppure lat. mulu > u móul. Anche sul campo del consonantismo si verifica l’assimilazione progressiva dei nessi latini doppi -ng che diventa -nn, e -ld > -ll: a lénnë < lat. lingua; kállë < lat. caldu. Due altri esempi dell’influsso pugliese sul lucano sono il verbo ágghië (da habeo) e il pronome interrogativo cé (da quid) che diventano nell’ipersistema linguistico della Basilicata ággë e kké. Per quanto riguarda il versante lucano-calabrese (detto anche“area Lausberg” dal nome del linguista che l’ha esplorata ed esaminata per primo), esso occupa una fascia tra Tirreno e Jonio a cavallo del confine con la Calabria, e ha il suo cuore nel massiccio del Pollino. Fino al Medioevo si estendeva con molta probabilità anche alle zone centrali della Basilicata, intorno a Castelmezzano (Trivigno, Anzi, Pietrapertosa, Campomaggiore, Albano, Laurenzana, Corleto Perticara), perché questi comuni presentano tratti sia innovatori che arcaici, avendo un vocalismo di tipo rumeno, che è un giusto compromesso tra il sistema napoletano e quello sardo dell’area Lausberg. Oggi la zona lucano-calabrese comprende i comuni della provincia meridionale di Potenza, a sud del fiume Agri (Francavilla in Sinni, Chiaromonte, Lauria, Castelluccio, Viggianello, Rotonda, Castelsaraceno, Senise, San Severino Lucano) e alcune località dell’entroterra materano (Valsinni, San Giorgio Lucano). Quest’area, per lo più interna e montuosa, è ricca di arcaismi linguistici poiché non è stata raggiunta dalle innovazioni del sistema campano: presenta, infatti, un vocalismo molto arretrato, simile a quello sardo, nonché la conservazione delle desinenze latine -S nella seconda (cándësë, tu canti) e -T nella terza persona singolare (vátë, va). Questa arcaicità deriva sicuramente da molteplici fattori: in primis dall’isolamento geografico dell’area dovuto in parte alla conformazione orografica, in parte alla mancanza di vie di comunicazione facilmente percorribili. Fin dal II secolo a.C. la Lucania era infatti attraversata da una rete viaria romana, la via Popilia (o Capua-Rhegium), la cui funzione era di carattere militare e di collegamento con la Sicilia. Era una scomoda, lenta e pericolosa alternativa al collegamento via mare. La via Popilia, attraversato il corso del Sele, proseguiva verso sud nel Vallo di Diano attraverso Nares Lucanas (Sicignano degli Alburni), Acerronia (Auletta), Forum Popili (S.Pietro in Polla), come testimoniano le carte itinerarie romane. Da qui s’inoltrava nelle montagne della Lucania meridionale, ma non se ne conosce il percorso preciso. Probabilmente passava per Cosilianum (Sala Consilina) e toccava Lagonegro, poi Nerulum (Rotonda) e sboccava in Calabria attraverso il valico di Campotenese. Nel tratto lucano la strada non era in buone condizioni, semi-deserta e rifugio di ladri e briganti. Anche il re Federico II si recava molto raramente in queste terre e sempre con parecchi sudditi al seguito, data la pericolosità del tragitto. Spesso imperversava, poi, la malaria e le popolazioni locali si ritiravano sui monti, allontanandosi dalla strada di comunicazione. Si spiega, dunque, l’isolamento dell’area Lausberg e la difficoltà di accogliere innovazioni linguistiche. La frammentazione dialettale attuale del territorio attraversato anticamente dalla via Popilia è sicuramente indice di una bassa intensità degli scambi tra le popolazioni, specialmente nelle zone interne.

Nella Lucania sono anche presenti, quasi isole o oasi linguistiche, due tipi di dialetti, che non rientrano nell’area idiomatica meridionale interna: l‘albanese e il gallo-italico. L’albanese, è una lingua indoeuropea con due dialetti, i cui confini vengono convenzionalmente divisi dal fiume Shkumbini: il Ghego a nord del fiume, e il Tosco a sud. La lingua Arbërisht o anche arbëreshë è una variante dell’albanese meridionale Tosco, misto al greco antico. In Basilicata si parla a S.Paolo e a S.Costantino Albanese nella valle del Sarmento, nonché a Barile, Ginestra e Maschito nella zona del Vulture. Questo perché, si è detto, tra la fine del secolo XV e l’inizio del XVI colonie di albanesi si stabilirono in questi paesi dopo che, nonostante l’eroica resistenza dell’eroe Giorgio Castriota Scanderberg, la loro patria era stata occupata dai turchi. Nella regione, come nel resto dell’Italia meridionale, gli albanesi hanno portato costumi e linguaggio propri. A Barile, ad esempio, sono riscontrabili elementi albanesi per lo più nel lessico: dura (porta), che deriva dall’albanese derë; kátër (quattro) < alb. katër; préfti (prete) < alb. prïft; štátt (sette) < alb. shtatë; ddímbri (inverno) < alb. dimri. La seconda isola è costituita dai dialetti gallo-italici, di tipo settentrionale, presenti nel quadrilatero Potenza-Picerno-Pignola-Tito e a Trecchina, vicino Maratea. Riflessi di questi dialetti, sempre in dipendenza del mutuo influsso esercitato dalle località contigue, si riscontrano a Bella, Ruoti, Avigliano, Cancellara, Tolve e Vaglio Basilicata e Trivigno per il quadrilatero, mentre per l’isola linguistica di Trecchina si riscontrano a Nemoli e Rivello nonché, in parte, a Lauria e a Maratea. Simili dialetti si trovano anche in alcune località della Calabria meridionale e soprattutto nella Sicilia orientale a Piazza Armerina (Caltanissetta), S. Fratello e Novara (Messina), Nicosia e Sperlinga (Enna), con tracce nelle località vicine ad esse. Questi idiomi, come indica l’epiteto ad essi attribuito, si rifanno a due ceppi linguistici differenti, il gallico e l’italico, che hanno in comune la madre latina. Per quanto riguarda il vocalismo un fenomeno rilevante è l’assenza della metafonia delle vocali toniche brevi -E ed -O davanti ad una -I oppure -U nel gruppo potentino: a Tito si sente bóyi, kótu, véndë, mbérnu. Un altro tratto gallo-italico è il troncamento della sillaba finale molto evidente nei participi passati: venù per “venuto”, partù per “partito”, pà per “pane”, frà per “fratello”. Sul campo del consonantismo, il fenomeno più caratteristico è il cambiamento di -L in -D e, nello stesso contesto, la ulteriore evoluzione in -R: lat. lingua > léngwa (Nord) déngwa (Tito) déngwë (Vaglio B.) ddénwa (Sperlinga, Sicilia) ma réngwa (Picerno); lat. lana > dana (Tito) ddána (Sperlinga) rána (Picerno); lat. lupu > lúyu (Nord) dúpu (Tito) ddóvu (Sperlinga) rúpu (Picerno); lat. lavare > lavár (Nord) dávë (Vaglio B.) ravà (Picerno). Un punto che accomuna le colonie gallo-italiche della Basilicata al nord dell’Italia è la sonorizzazione delle occlusive intervocaliche latine -P, -T e -C: lat. cooperculu > kuvércú (Nord) kuwírchi (Vaglio B.) kovércú (Sicilia); lat. frater > frárë (Picerno); lat. capra > chevre (fr.) > crava (Picerno); lat. nepos > neveu (fr.) > nëvórë (Picerno). I gallo-italici si possono classificare anche come dialetti italici-francesizzanti, proprio per questo legame molto stretto di derivazione e di somiglianze tra alcune parole lucane e il francese: a livello lessicale, registriamo ancora u krësé (l’uncinetto), che deriva da le crochet; a fënéstrë (finestra) < fr. fenêtre; u bbëffétt (la tavola da mensa) < fr. le buffet; arrukkwé (ululare) < fr. roucouler; a bbwátt (la scatola) < fr. la boîte. A parte le differenze, ci sono alcuni tratti comuni grosso modo alle parlate dell’intera Basilicata. In gran parte della regione si producono gli esiti metafonetici e, per quanto riguarda il consonantismo, è piuttosto generalizzata la conservazione delle occlusive sorde (p, t, k) quando sono intervocaliche; quando si trovano dopo nasale, invece, diventano sonore, per cui sono usuali pronunce come tando per “tanto”, veramende per “veramente” o bango per “banco”. A livello morfologico, il passato prossimo si costruisce con l’ausiliare “avere” anche dove l’italiano usa “essere”: ágg muértë, che deriva dal latino habeo + mortuu, “sono morto”; ågg kadútë, ecc. Singolare è la costruzione del futuro, che in latino è di tipo sintetico (cantabo), mentre in Basilicata e nel meridione si sviluppa un futuro analitico del tipo habeo ad cantare: l’ágg a manná a ppïténdz (“lo devo mandare / manderò a Potenza”, dialetto di Tolve). La formazione del futuro analitico nasce da una necessità di espressione causata dalla diffusione del cristianesimo: l’esistenza umana è un’anticipazione permanente del futuro. Il cristianesimo riporta il futuro nel presente come “necessità dell’agire oggi per” meritarsi la vita eterna. Di qui l’esigenza di un nuovo tempo verbale, un futuro-presente che nasconde una sorta di obbligo o dovere morale. Per quanto riguarda la sintassi, una caratteristica riguarda l’anteposizione dell’aggettivo possessivo rispetto ai nomi che indicano relazioni di parentela: a Potenza, ad esempio, si registrano ta mamma, sa mamma, mi sire e sa ssire per “mia mamma”, “mamma sua”, “mio padre” e “suo padre”. Nelle frasi riflessive, diversamente dall’italiano che usa l’ausiliare essere, il dialetto lucano usa “avere”: t’ey víppëte nu bëkkírë dë vín (“hai bevuto un bicchiere di vino”, Chiaromonte). Nelle relative si usa il pronome ka: lu fyáskë ka bëvéimë (“il vino nel fiasco che beviamo”, Vaglio Basilicata). Infine il dativo etico. Secondo la grammatica latina questa costruzione esprime una partecipazione emotiva del parlante nelle domande (quid mihi celsus agit?, “Che combina Celso nei miei confronti?”, Cicerone), nelle esclamazioni ed esortazioni. In Basilicata è usato anche nelle frasi affermative come, ad esempio, a yíddë lu fa frídd (“a lui fa freddo”, Albano) e státë v attíénd (“state attenti”, Trivigno). (F. R.)

Bibliografia:

* Rainer Bigalke, “Basilicatese”, Lincom, München 1994
* Nicola De Blasi, “L’italiano in Basilicata”, Il Salice, Potenza 1994
* Franceco Saverio Lioi, “Il dialetto lucano”, in “Leukanikà: rivista lucana di cultura e varia umanità”, n. 4 (2001), pp. 49-53
* Paolo Martino, “L’area Lausberg: isolamento e arcaicità”, La Sapienza, Roma 1991
* Antonio Rosario Mennonna, “I dialetti gallitalici della Lucania”, Congedo, Galatina 1987
* Gerhard Rohlfs, “Studi linguistici sulla Lucania e sul Cilento”, Congedo, Galatina 1988
* Pina Vallo, “La Lucania e gli antichi: storia, antropologia, dialetto”, RCE, Napoli 2008

a cura di Approfondimenti Regione Basilicata

Ghost Town

Ghost Town from Leonardo Dalessandri on Vimeo.

A causa di una frana di vaste proporzioni, nel 1963 Craco fu evacuata e l’abitato trasferito a valle, in località Craco Peschiera. Allora il centro contava oltre 2000 abitanti. La frana che ha obbligato la popolazione ad abbandonare le proprie case sembra essere stata provocata da lavori di infrastrutturazione, fogne e reti idriche, a servizio dell’abitato.
Paese fantasma
Ad onta di questo esodo forzato, Craco è rimasta intatta, trasformandosi in una specie di paese fantasma, caso raro nel suo genere. Oggi non è piu possibile percorrerne le strade; il comune prevede entro un anno la riapertura di 2 itinerari in zone ritenute sicure del paese fantasma. Inoltre, secondo gli appassionati di paranormale, a Craco ci sarebbero avvistamenti di figure spettrali e all’interno delle case abbandonate si sentirebbero rumori particolarmente inquietanti [2] .

Craco ha fatto da sfondo per vari film:

* La lupa di Alberto Lattuada
* Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi, nell’episodio dell’arrivo di Volontè-Carlo Levi alla nuova destinazione di confino, Gagliano. Per l’occasione furono disposti sulle prime case del paese degli stendardi a lutto, per ricreare lo scenario descritto nel libro. Ancora oggi è possibile ammirarli. Nemmeno il tempo con le
sue ingiurie è riuscito a svellerli, a testimonianza della sorte veramente ria subita da questo posto.
* King David di Bruce Beresford
* Saving Grace di Tom Conti
* Il sole anche di notte di Paolo e Vittorio Taviani
* Terra bruciata di Fabio Segatori
* Nativity di Catherine Hardwicke
* La passione di Cristo di Mel Gibson, gli esterni di questa pellicola furono girati prevalentemente a Matera; Craco fu scelta dal regista come il paese che si vede sullo sfondo nella scena dell’impiccagione di Giuda.
* The Big Question, diretto da Francesco Cabras, Alberto Molinari
* Nine Poems in Basilicata di Antonello Faretta
* Agente 007 – Quantum of Solace, regia di Marc Forster, con Daniel Craig e Giancarlo Giannini.
* Basilicata coast to coast, di Rocco Papaleo.

Numerosi turisti salgono a Craco per vedere le rovine del paese fantasma e per avventurarsi tra i vicoli in un’atmosfera surreale. Altrettanto suggestivi sono i dintorni. Il terreno argilloso e brullo coesiste con quello marnoso: su uno sperone di marna calcificata dal tempo sorge il torrione, che per i Crachesi è il “castello”. Olivi secolari misti a cipressi antichissimi sono dal lato del paese verso lo Scalo, quest’ultimo sulla ferrovia calabro lucana da questo lato divelta e abbandonata.
Le contrade
I nomi delle contrade evocano un passato intenso e misterioso:
* “Canzoniere”: prende il nome da un’antica taverna posta lungo un tratturo una volta assai frequentato. La storia vuole che a gestire la taverna fosse una donna assai avvenente, una specie di Circe contadina, che riduceva in suo potere i malcapitati sedotti dalla sua avvenenza: la maliarda li uccideva e li metteva sotto aceto, facendone il piatto forte della sua osteria.
* “San Lorenzo”: un’antica fontana a volta, sulla via verso il Cavone dove palme altissime convivono con gli olivi sullo sfondo di masserie che sono capolavori dell’arte costruttiva rurale dei secoli passati, austere e solari,arroccate e nel contempo aperte al territorio, come quelle “Galante” e “Cammarota”, con il loro svolgersi su due livelli, gli archi che reggono la scala esterna e i terrazzi che sembrano spalti a difesa di non improbabili attacchi.
* “Sant’Eligio”: protettore dei maniscalchi trova in Craco un tributo che va al di là della semplice menzione toponomastica, con la sua cappella magnificamente affrescata, forse del ‘500, con le sue scene di santi intorno a un Cristo che pur crocifisso resta Pantocratore.

fonte : wikipedia

Brilla ancora l’armatura del principe assassino

Se un giorno d’estate un viaggiatore si trovasse a passare dal castello di Konopiste, 50 chilometri a Sud-Est di Praga, farebbe una curiosa scoperta. Il castello è un pesante rifacimento ottocentesco, con gallerie tappezzate delle corna di migliaia di cervi che ebbero la sventura di trovarsi dalla parte sbagliata di una canna di fucile e soffocanti salotti e salottini vittoriani arredati all’insegna del più ce n’è e meglio è. Della grande attrazione bellépochiana del castello, i celebri roseti, resta poco. Ma, in mezzo al bric-à-brac, il turista avvertito troverà ciò che vale il viaggio. Si tratta di un’armatura «per giostrare alla palanca» che fu realizzata a fine Cinquecento da un grande artista, l’armoraro milanese Pompeo della Cesa (1537 circa – 1610) per un altro, il musicista Carlo Gesualdo (1566-1613). Che cosa ci faccia in un castello boemo è l’oggetto di questa storia, in cui compaiono un principe assassino, un altro assassinato, un delitto d’onore e uno politico, molti madrigali, un grande matrimonio, la nascita dell’Italia unita e quella della Cecoslovacchia. Il protagonista è Carlo Gesualdo, principe di Venosa, grande nobiltà meridionale, nipote di San Carlo Borromeo. E, soprattutto, uno dei massimi musicisti italiani della sua epoca e non solo di quella. Nei suoi madrigali, l’ultima grande stagione della polifonia sprofonda in complessità abissali, audacie armoniche, cromatismi allucinatori. Gesualdo è un musicista «da musicisti», forse, più che da grande pubblico. Ma, senza dubbio, un grandissimo musicista.

Tant’è: per tutti, rimane il principe assassino del delitto del secolo, protagonista cattivo di una storia d’amore e di morte cantata dal Tasso («Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto / Di beltà, di virtù l’oscuro occaso / E in lutto l’armonia rivolga il canto») ma anche nei lamenti popolari. Fra la prima moglie di Gesualdo, Maria d’Avalos, e Fabrizio Carafa, duca d’Andria, giovani bellissimi e innamoratissimi, nacque la più clamorosa relazione extraconiugale del secolo. Finché, un brutto giorno, il 16 ottobre 1590, il marito cornuto, che non
poteva più fingere di non vedere, simulò di partire per la caccia, lasciò che la moglie ricevesse l’amante e, in una notte di tregenda, li fece sorprendere dai suoi bravi e trucidare in un lago di sangue. Fra i compianti cantati dalla plebe napoletana, sempre sentimentale, fiorirono le leggende: come quella dei due amanti che sanno di dover morire e aspettano i colpi abbracciati pregando insieme Dio di perdonare e di perdonarli; o quella del principe che ucciderli non vorrebbe, ma viene costretto dalle pressioni della famiglia ferita nell’onore. Mistero. Quel ch’è certo è che nel day after Carlo Gesualdo andò a confessare dal viceré spagnolo Miranda, che gli consigliò di lasciare Napoli per sfuggire non alla giustizia, poiché ovviamente il suo delitto era nel suo diritto, ma alla vendetta delle famiglie degli uccisi.

Però la politica, anche quella matrimoniale, ha le sue ragioni. Quattro anni dopo, il 21 febbraio 1594, Carlo Gesualdo sposò Eleonora d’Este, nipote di Alfonso II, duca di Ferrara. Il regalo di lei a lui è, appunto, l’armatura di Konopiste. La sua decorazione all’acquaforte è lussureggiante. Ci sono grifoni, delfini, putti, leoni, sfingi, sirene, faretre, frecce, personaggi mitologici e personificazioni di virtù e grazie, come se l‘Iconologia di Cesare Ripa, breviario dell’allegoria barocca, fosse stampata sull’acciaio. Alla passione di Carlo alludono trombe, tromboni, tamburi, arpe e liuti, risuonanti a maggior gloria del «Musicorum Princeps», il principe dei musici. In più, c’è un rebus musicale per iniziati, un piccolo pentagramma con due sole note. Sono un mi e un sol: nella notazione alfabetica, una «e» ed una «g». Come Este e Gesualdo, le casate unite dall’amore. O almeno dal matrimonio.

Carlo passò gli ultimi anni nel suo feudo meridionale a scrivere madrigali e fondare conventi. Per la famiglia della moglie non furono tempi facili. Nel 1598, dopo l’estinzione del ramo principale degli Este, il tosto pontefice Clemente VIII Aldobrandini, quello che mandò al rogo Giordano Bruno e al patibolo Beatrice Cenci, rivendicò Ferrara, feudo ecclesiastico. Gli Este dovettero traslocare a Modena, feudo imperiale, con le loro favolose collezioni. Qui regnarono fino al Risorgimento. Nel frattempo, erano diventati Absburgo-Este da quando l’ultima erede della famiglia sposò uno degli innumerevoli figli di Maria Teresa, mentre le collezioni erano un po’ meno favolose dopo la sciagurata vendita dei quadri migliori all’elettore di Sassonia. Quando, nel 1859, arrivarono i piemontesi, l’ultimo duca, Francesco V (1819-1875) se ne andò in esilio, ovviamente in Austria, portandosi dietro tutto quel che poté, compresa l’armatura di Carlo.

Senza eredi maschi, decise di lasciare tutto a un altro Absburgo, l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, con un complicatissimo testamento nel quale condizionava l’eredità al fatto che l’arciduca assumesse il nome di Absburgo-Este. Francesco Ferdinando titubò, perché nella hit parade dei suoi odii, dopo gli arcidetestatissimi ungheresi, venivano subito gli italiani, che chiamava spregiativamente «Katzelmacher», fabbricanti di mestoli. Ma il patrimonio era ingente e comprendeva, oltre a un bel palazzo viennese, appunto Palazzo Modena, che oggi ospita il ministero degli Interni austriaco, anche le collezioni.

Così Francesco Ferdinando accettò, si chiamò Absburgo-Este, comprò Konopiste e ci portò gli objets d’art degli Este, armatura di Gesualdo compresa. Nel castello si dedicava a due delle sue tre passioni, la caccia e le rose. La terza era ovviamente la moglie, una contessa Sophie Chotek, nobile sì, ma non abbastanza per poter regnare con lui. Comunque il problema non si pose perché, come sanno perfino i liceali italiani, Francesco Ferdinando fu assassinato a Sarajevo il 28 giugno 1914, scatenando la Prima guerra mondiale al termine della quale la neonata Cecoslovacchia debuttò sequestrando subito i beni dell’ex famiglia regnante. Incluso Konopiste e tutto quel che c’era dentro. Oggi è morta anche la Cecoslovacchia. Ma l’armatura realizzata a Milano per un principe napoletano che si sposava a Ferrara è sempre lì, in un castello boemo, nel suo incanto scintillante. A dirci che la storia passa, le dinastie tramontano, i regni cadono, ma la bellezza resta. O almeno speriamo.

di Alberto Mattioli
La STAMPA

L’ARMERIA DEGLI ESTENSI

Gli Estensi accumularono nel Castello armi e armature, in parte commissionate agli artigiani più famosi, in parte avute in dono: armi bianche e, a partire dal XVI secolo anche armi da fuoco, non quelle rozze del campo di battaglia, bensì quelle lussuose e decorate per la caccia, uno degli svaghi preferiti dalla nobiltà.
Nel Rinascimento raggiunse il suo culmine il processo di arricchimento di tutte le armi, da fuoco e non. Questo accadeva in quanto la fine delle guerre d’Italia tra la Francia e la Spagna e il successivo lungo periodo di pace, ma soprattutto la comparsa delle piccole artiglierie portatili (come archibugi, moschetti, pistole) avevano accelerato la decadenza delle armi bianche e delle armature non più efficaci nella difesa e nell’offesa.
Contemporaneamente, le armi bianche e le armature acquistarono un valore simbolico di potere e ricchezza da sfoggiare nei tornei oppure da indossare, in posa, davanti ai più famosi pittori del tempo. Le armi di fanteria si ingentilirono, diventando oggetti artistici e raffinati, ricche di incisioni e impreziosite da gemme.
L’armeria degli Estensi fu tra le più importanti d’Italia, ma si avviò alla decadenza e alla dispersione come la quadreria e la libreria, patrimoni tutti che lasciarono la sede originaria del Castello Estense, nel 1598, seguendo destini diversi.
Di tutte le colubrine, perfettamente fuse e magnificamente decorate, a Ferrara non è rimasto nulla. In Italia se ne trovano due nell’Armeria Reale di Torino; all’estero qualcuno nel castello di Konopiste (ex Cecoslovacchia) dove è esposto il nucleo principale dell’armeria composto da migliaia di pezzi. Infatti, dopo la devoluzione (ritorno del ducato di Ferrara al papato) l’armeria rimase a Modena dal 1598 al 1860, anno in cui l’ultimo duca Francesco V d’Austria – Este la portò con sé a Vienna, dove rimase fino al 1906 quando l’arciduca Francesco Ferdinando, che l’aveva ereditata dall’ultimo discendente estense, la trasferì nel Castello di Konopiste, come dono di nozze per la moglie Sofia.
Dopo la I Guerra Mondiale, lo Stato cecoslovacco ne divenne proprietario.
Nel 1939 i nazisti, occupata la Cecoslovacchia, trasferirono l’armeria a Vienna.
Nel 1945 l’Armata Rossa permise il ritorno della collezione a Konopiste, il castello della Slovacchia di cui è la principale attrazione turistica.

Fonte: http://www.castelloestense.it/didattica/dati/approfondimenti/armi.html

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