L’acqua, la ninfa, il fauno e i monaci basiliani – San Chirico Raparo ( Basilicata)

I Basiliani – fonte quotidiano della Basilicata

La tradizione, ci racconta che San Vitale, monaco di rito greco proveniente  giunto ai piedi del monte Raparo, nei pressi dell’attuale San Chirico Raparo, tra il 980 e il 986, abitò in una grotta e costruì il convento di S. Michele Arcangelo Più tardi i monaci vi costruirono sopra la Basilica. La grotta ricca di stalattiti e stalagmiti, con numerose gallerie e vasche, è bagnata dalla fonte “Trigella” (dal Lat. Trigelida=molto fredda);

Alla fonte è legata la leggenda della Ninfa Ripenia che, per sfuggire al fauno

Crapipede, si rifugiò nelle vasche della Trigella. Il fauno per vendicarsi fece prosciugare la sorgente e rese l’acqua non potabile.

Da una articolo del Quotidiano della Basilicata di F. Gresia

La storia del fiume Trigella fra racconti della tradizione e ricerche degli storici nei secoli
Il freddo scorrere delle acque leggere

Acque gelide e misteriose nelle quali il mito tende la mano alla scienza e alle sue spiegazioni.
Avvolta in un territorio angustio e verde, capace al principio di impaurire lo sprovveduto alla ricerca del fiume misterioso, la Trigella si nasconde allo sguardo dei curiosi nei mesi invernali per poi rinascere a primavera. Scherzo del destino o vittima dell’incantesimo del fauno, è difficile ascoltare il suo suono nei mesi invernali. Le piogge alimentano i rigagnoli che scorrono a valle, tutto è avvolto in una coltre di nebbia, ma di lei non si ode il suono, lei non scorre sulla terra come un’indifferente passante, lei, la Trigella è parte di questa terra, trae origine dal suo cuore pulsante, sgorga dai meandri più nascosti del suo cuore, e viene a portare rinfresco a chi non può fare a meno di assaggiarla.
E’ con la primavera che si risveglia il suo canto d’amore, è nei primi mesi del tiepido tepore che, mentre la natura si sveglia del sonno invernale, porgendo l’orecchio la si sente scorrere sempre più forte, il suo cuore pulsante interrompe il silenzio che la circonda, lo rende vivo, fino a riaffiorare a galla.
Un fascino senza tempo, forse quello dell’amore misterioso, reso speciale dal suo essere riservato, così come scrive Emilio Magaldi nel lontano 1932: “Scendendo dal ponte della provinciale, per un ripido sentiero, al torrente della Trigella- nome che vorrebbe dire la gelidissima- e seguendo a ritrovo il corso del fiumicello rumoroso e spumeggiante, si arriva ad un punto al di là del quale il letto del torrente non reca la benché minima traccia di acqua”. Le linfe della Trigella spariscono nel nulla, forse perché catturate ed imprigionate nei versi di Pontano e nel mito amoroso della ninfa Rupenia e del fauno, ben narrate nel poema Meteore.
Esametri che delle gelide acque della Trigella narrano di un amore non corrisposto, della sofferenza di chi innamorato veniva schernito, e della voglia di punire la fonte delle sue pene. Un giorno stanco di tanto soffrire, il fauno vedendo la ninfa schernirlo “al riparo delle gelide spumose onde del torrente, allontanò il gregge
dalla fonte, deciso a non ricondurvelo mai più e mandò terribile maledizione”.
Nessuna bestia avrebbe dovuto avvicinarsi alla Trigella, chiunque lo avesse fatto: “non vedrà parti né prole, ed ogni volta che avrà gustato dell’acqua se ne partirà coi fianchi addolorati”.
E fu così che le vene della fonte si seccarono, le sue braccia scomparvero per tutto l’inverno per ricomparire solo a primavera.
Perché come traduce Paolino Durante nel 1833: “Quando poi declina rapido il
sole, e l’anno fugge, allora cerch’indarno nel fonte umore o brina.
Dirai meravigliando: Ov’è la chiara onda d’argento della mia Trigella? Perchè
con lei natura è fatta avara? E accuserai la sua maligna stella”.
Forse solo una leggenda, forse un semplice fenomeno carsico di intermittenze,
eppure il lento sgorgare della Trigella non perde il suo carattere magico, quello capace di far sognare il Pontano. Non abbandona quell’atmosfera misteriosa che la rende ricercata agli occhi degli increduli, non permette al passante di trascurarla, perché con le sue note è capace di richiamare la sua attenzione su un angolo particolare della Lucania, quello che aveva affascinato i monacibasiliani, regalandogli tranquillità e sicurezza.

L’amore ai tempi dei Cavalieri. La leggenda della bella Elena degli Angeli

L’amore ai tempi dei Cavalieri.
Una leggenda avvolge ancora il castel di Lagopesole.Questa leggenda, forse,  legata ai fatti storici che avvennero dopo la sconfitta e la morte di Manfredi che è stato l’ultimo re svevo di Sicilia. Figlio dell’imperatore svevo Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, nipote di Enrico VI e pronipote di Federico I di Svevia detto Barbarossa fu reggente dal 1250 e quindi re di Sicilia dal 1258.
Morì durante la battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe di Carlo I d’Angiò.
Questa leggenda racconta che in alcune particolari notti, quando la luna è alta nel cielo e tutta la campagna tace, dal Castello si vede apparire e scomparire una luce portata da una fanciulla vestita di bianco e si sentono lamenti, invocazioni ed urla di disperazione.

La bella Elena degli Angeli, moglie disperata di Manfredi, torna al Castello dove visse felice a cercare il caro marito e gli amati figli perduti per sempre. Ed il biondo Manfredi, cavalcando il suo magnifico stallone bianco, con un bellissimo vestito dal lungo manto verde nella profondità della notte può essere incontrato nelle campagne attorno al castello, che vaga all’eterna ricerca della sua famiglia distrutta dall’Angioino.

“la Madonnina di Terracotta”

La Basilicata è terra di leggende e storie. Qui vi è una dedicata ad una Madonna. Il culto mariano è molto sviluppato in Basilicata e diverse e molteplici sono le forme di  devozione.

“In una splendida valle della Lucania viveva tempo fa una madre con una figlia e un figlio in una casetta misera sotto una parete di roccia che cadeva ripida sopra un fiume dalle acque vorticose. La madre era paralitica, la figlia
Gigia di vent’anni oziava tutto il giorno lagnandosi della propria miseria
invece di tessere e occuparsi della madre e dei lavori domestici. Pietro, il fratellino, invece si alzava presto per andare a lavorare.

Pietro, oltre a sostenere la famiglia, portava anche un sorriso e speranza alla sua povera madre. Così le giornate erano tutte uguali e la madre cercava di far lavorare la figlia ma non c’era verso, lei non ne voleva sapere perché tanto “non gli avrebbe sollevati dalla miseria”. La madre allora guardava verso una mensola su cui c’era una Madonnina di terracotta, una statuetta bianca e azzurra con le mani giunte e un dolce sorriso di pietà. E la pregava.

Una sera Pietro non tornò a casa e Gigia lo cercò per tutta la notte chiamandolo, mentre la madre la implorava di restare a casa con lei a pregare la Madonnina. Quando tornò giorno, Gigia disse alla madre che andava nel bosco a cercare qualcosa da mangiare. La povera donna si sentiva morire e così pregò la Madonnina di farle vedere i suoi figli. La Madonnina d’un tratto apparve, accarezzandola con dolcezza e dandole conforto.

In quel momento da fuori si sentirono dei terribili ululati e la donna pregò la Madonnina di soccorrere i suoi figli, ma la Madonnina la rassicurò dicendole che stavano bene e che avrebbe curato lei. La madre si addormentò e quando si svegliò il giorno era arrivato e con esso anche i suoi due figli. Pietro raccontò che era stato assalito da due lupi ma riuscì a salvarsi, in quel momento vide Gigia e i lupi andare verso casa loro. Videro i lupi davanti all’uscio andarsene all’improvviso.
La madre allora gli disse della Madonnina, che nel frattempo si era rimessa su un altro scaffale, e i due fratelli si inginocchiarono davanti alla statua e la ringraziarono per tutto. Gigia promise che avrebbe iniziato a lavorare e a darsi da fare con il telaio, facendo così felice la madre. Loro madre disse che l’avrebbe aiutata anche lei, i due figli allora si girarono e videro la donna, un attimo prima paralitica, muoversi da sola dopo tanto tempo inferma.”

fonte: ilcomuneinforma

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I turchi, San Gerardo, la iàccara, Potenza… e i catari

 

COMMEMORAZIONE DI SAN GERARDO
Parate e rievocazioni storiche in onore del Santo Patrono della Città di Potenza
Le parate e le rievocazioni storiche del giorno 29 maggio 2010, in occasione della commemorazione di San Gerardo, patrono della città di Potenza, prevedono tre ambientazioni che vanno a rappresentare tre periodi storici ben precisi, e cioè il XIX, il XVI e il XII secolo.
Il primo ambiente fa riferimento ad una nota descrizione che Raffaele Riviello riporta in un suo libro dedicato alle tradizioni del popolo potentino: in essa, il
Riviello racconta non solo il momento della parata cosiddetta dei Turchi ma anche tutto il clima di festa e di preparazione che precede la stessa parata. Per questo motivo, si è pensato di organizzare anche un quadro descrittivo di questa ambientazione che precederà temporalmente le parate e rievocazioni della serata: esso sarà messo in scena nel primo pomeriggio del giorno 29 maggio, a Piazza Matteotti, la vecchia Piazza Sedile, scena che riproporrà il popolo festante in attesa che, con travestimenti e con l’uso di trucco, si accinge a festeggiare il Santo Patrono.
Il secondo ambiente fa riferimento ad un documento storico del 1578 nel quale si descrive il popolo potentino che vestito alla turchesca e alla moresca accoglie in città il nuovo conte Alfonso de Guevara: per preparare questa quadro si è salvaguardata la tradizione della parata e si è inserita la rappresentazione di San Gerardo bambino che su una barca salva la città dall’invasione dei Turchi.
Infine, il terzo ambiente vuole rappresentare il momento di devozione verso “ u prut’tor ” e mettere in evidenza la religiosità dei potentini durante il XII secolo quando San Gerardo, dopo il suo vescovado durato dal 1111 al 1119, venne santificato vox populi divenendo Santo Patrono della città di Potenza.
Ogni quadro sarà preceduto da banditori che racconteranno agli spettatori tutte le scene con dovizia di particolari.
La parata, al contrario degli anni precedenti, seguirà un percorso inverso poiché partirà dal Campo Sportivo Viviani per giungere nel centro storico, attraverso Porta Salza e, si concluderà a Largo Duomo.
Così Raffaele Riviello, nel 1893, in Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del Popolo Potentino, descrive il rito della iàccara:
“Nella vigilia, in sull’ora del vespero, si portavano in città, a suono di pifferi, di tamburi, o di bande, le iaccare (fiaccate) , cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa.
Il trasporto di una iaccara formava una vera scena di brio e di festa per plebe e per monelli.
Molte coppie di contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno, vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato, o disegno di cannucce, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura, o immagine di S. Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere, per accrescere l’allegrezza della festa. E la gente si affolla per vedere, fa largo, e ride tutta contenta. Di tanto in tanto ì portatori si danno la voce per regolare le forze e i passi, si fermano per ripigliare un po’ di lena ed asciugarsi il sudore con una tracannata di vino; giacchè vi è sempre chi li accompagna col fiasco e li aiuta a bere, senza farli muovere di posto.
Come si giunge al luogo, ove è il fosso per situare la iaccara, la scena muta per folla dì curiosi, rozzo apparato di meccanica e timore di disgrazia. Si attaccano funi, si preparano scale ed altri puntelli; ed al comando chi si affatica di braccia e di schiena, chi adatta scale e grossi pali per leva e sostegno, e citi da finestre e da balconi tira o tien ferme le funi. E ad ogni comando si raddoppiano gli sforzi, si fa sosta e silenzio, secondo che nell’alzarsi lentamente la iaccara il lavoro procede con accordo di forze, o presenta difficoltà e pericolo.
Appena si vede alzata, prorompe un grido di gioia; tamburi e bande suonano a frastuono, e la gente con viva compiacenza guarda di quanto la iaccara supera in altezza le case vicine.
Le iaccare si innalzavano nei luoghi più larghi; in Piazza, innanzi alla Chiesa di S. Gerardo, avanti a lu Palazz’ di lu Marchese, (oggi Liceo), a Portasalza, di fronte a lu castiedd (Ospedale S. Carlo).
Per accenderle, la vigilia a sera, bisognava arrampicarsi sino alla cima, e non senza fatica.
Queste grandi fiaccole erano i fari fiammeggianti della festa per farli vedere da lontano. Ardevano tutta la notte, e illuminavano a giorno tutto il vicinato, la cui gente godeva e si divertiva a quella vista.”

Comitato tecnico-scientifico “San Gerardo MMX” è composto da Piera De Marca, Antonella Pellettieri, Rosario Angelo Avigliano, Gerardo Messina, Giovanni Montatori e Gerardo Viggiano.
Foto di Catepol 
 
Questa la parata.
Ma perchè san Gerardo e i turchi?
Forse perchè…la vulgata cittadina fa risalire la rappresentazione allegorica alla pretesa invasione di Potenza da parte di un esercito turco, il quale avrebbe risalito il fiume Basento fino a Potenza(???). I cittadini, quindi, impotenti dinanzi alla organizzazione militare degli invasori, si sarebbero rivolti al vescovo, Gerardo La Porta, e questi, invocando una schiera di angeli guerrieri, avrebbe compiuto il miracolo di liberare la città dai suoi nemici. Tuttavia, è improbabile che, in tempi geologicamente recenti, il fiume Basento fosse navigabile, inoltre non è storicamente riscontrata un’invasione turca riconducibile al periodo di S. Gerardo la Porta. Gerardo la Porta, già vescovo di Piacenza, verosimilmente ha cominciato ad essere venerato come santo protettore della città di Potenza (il protettore precedente era S. Oronzio, martire), dopo esservi stato mandato dalla Santa Sede per contrastare la diffusione dell’eresia catara. Difatti, è certo che i Catari, nei primi decenni del XII secolo, estendevano le loro ultime propaggini nell’Italia del Sud (pur avendo le loro maggiori comunità nel nord Italia e Oltralpe).
È plausibile che tali comunità spirituali, che assumevano la forma di forti ed influenti clan religiosi, abbiano incontrato la ferma opposizione da parte delle gerarchie cattoliche ortodosse, e che Gerardo la Porta, vescovo di Piacenza, abbia ingaggiato con loro uno scontro politico e teologico, fino alla neutralizzarne l’influenza presso la borghesia potentina. Da allora probabilmente la cittadinanza conservò con devozione la memoria del “liberatore”, attribuendo col tempo ai “Turchi”, il nemico per antonomasia delle popolazioni meridionali dei secoli successivi, il burrascoso evento e trasformandolo in una fantasiosa invasione armata.
E forse c’entra qualcosa la battaglia di Lepanto (1571) e l’arrivo del nuovo signore Guevara in città? 

Giovanna, Napoli, l’ovo magico e Muro Lucano

Il 16 gennaio 1343 muore Roberto, che la tradizione popolare volle definire “il Saggio”, e quasi come sempre accade nei corsi e ricorsi della storia, cominciò per la dinastia una serie di grossi guai. Gli successe, infatti, la nipote Giovanna, salita al trono all’età di sei anni. Con il passare degli anni si dimostrò una donna alquanto frivola e poco affidabile. Per volere del nonno, aveva sposato Andrea d’Angiò, fratello del re d’Ungheria. Il principe consorte tuttavia dopo pochissimi anni venne trovato
assassinato e presto i sospetti caddero sulla regina e sul di lei amante Enrico Caracciolo. Questi fatti, truci ed inquietanti gettarono la popolazione nel panico e nello sconforto,e fu così che la rivoltà popolare montò facilmente e costrinse la regina a rifugiarsi in Castel dell’Ovo. A questa prima sommossa ne seguì un’altra e sempre per lo stesso motivo, si verificò circa due anni dopo. Questa volta però la rivolta era guidata da Tommaso de Jaca, che fu ucciso dallo stesso Enrico Caracciolo. La morte del principe Andrea aveva turbato gli animi d’- oltralpe ed in particolare del fratello che era re d’Ungheria. Questi preparata un’armata scese in Italia e mosse alla volta di Napoli per vendicare l’assassinio. Entrato in città tuttavia, con l’intento di catturare e punire Giovanna, trovo la reggia vuota. L’astuta regina prevedendo le ire del cognato aveva lasciato la città e si era rifugiata in Francia. Padrone incontrastato della città i re ungherese pretese dai napoletani un pesante onere in danaro. Ma la rivolta pronta della cittadinanza fu tale da ridurre l’ungherese a più miti consigli. Nello stesso periodo a Napoli scoppiò la peste e fu così che il re ungherese con le sue truppe decimate fece rientro in patria lasciando la città in uno stato di completo abbandono ed in preda a una malattia che fece migliaia di vittime.Ma appena la peste terminò Giovanna volle riprendere il suo posto sul trono. Ma i guai non erano terminati. Nel 1349 Napoli e la cinta vesuviana fu scossa da un devastante terremoto. E mentre i napoletani stavano terminando di leccarsi le ferite per questi accadimenti, al re ungherese si riaccesero le voglie di riappropriarsi della città nel 1350. Nel 1362 una nuova epidemia di peste spazzò via altre centinaia di napoletani e nel 1370 poi, vi fu un grande sommovimento di folla provocato dalla notizia, velocemente diffusasi da un capo all’altro della città, della presunta rottura dell’ «ovo magico» che, malgrado ogni smentita, si supponeva custodito nei sotterranei di Castel dell’Ovo. Questa era una leggenda, tramandata da secoli ed alla quale i napoletani erano molto affezionati sia per retaggi scaramantici che per conoscenze antiche. Questa leggenda che affondava le radici nella mitologia, nella magia e che aveva come “testimone” niente meno che il grande Virgilio vedeva l’uovo al centro dell’universo e dell’umanità tutta della popolazione. Si raccontava inoltre che quando l’uovo si fosse rotto, anche la città si sarebbe disfatta, distrutta, dissolta. Fu in quel momento che Giovanna dovette intervenire personalmente giurando pubblicamente davanti al popolo che l’uovo era intatto e che lei stessa lo custodiva. Da questa leggenda deriva il nome del castello che ancora oggi porta quell’appellativo. Giovanna regnò a Napoli tra il fasto, la ricchezza e la grande corte anch’essa dedita al lusso.Un tal regno che fortemente contrastava con i suoi predecessori non poteva che terminare in un disastro. Il suo regno infatti coincise con un evento religioso catastrofico per la Chiesa: uno scisma. E la regina, mal consigliata volle appoggiare la causa dell’-antipapa Clemente VII che si contrapponeva al Papa Urbano VI (napoletano di origini). Questo le meritò le ire del popolo e della corte. L’ultimo fatale errore della sua carriera reale le venne direttamente dai rami collaterali della sua dinastia: i Durazzo. Tra questi il nipote Carlo impossessatosi di parte delle truppe e avendole coinvolte in una azione diretta alla corona, la regina si rifugiò nel castello di Muro Lucano che secondo la tradizione popolare ,era pieno di trabocchetti e paurosi sotterranei in cui la regina faceva sparire i suoi amanti. Quì la regina venne uccisa.Era il 12 maggio del 1382.

Bernalda e le storie di Palazzo Ammicc

Questa leggenda narra di una famiglia ricca che abitava in un grande palazzo del centro storico di Bernalda. Nel palazzo ci vivevano altre famiglie,al piano terra c’era un grande atrio dove i bambini potevano giocare e dove gli abitanti dello stesso palazzo, per lo più contadini, vendevano ciò che coltivavano nelle loro campagne. Il proprietario non faceva pagare il fitto ma in cambio voleva che gli inquilini dell’edificio si occupassero dei suoi terreni. Prima di morire nascose tutto il suo oro in un posto segreto del palazzo. Si racconta che, per avere questo tesoro, nel quale c’era
anche una chioccia d’ora a dimensione naturale con tredici pulcini, si dovesse uccidere un bimbo non ancora battezzato e sacrificarlo. Ancora oggi nessuno è riuscito a trovare questo tesoro. Questo palazzo, tutt’ora abitato, è chiamato Palazz Ammicc perché la sua padrona portava il nome di Lalla Micca*. Si dice che le famiglie di questo palazzo avessero più figli femmine che maschi, infatti si diceva: palazz ammic femmn assje uommn picc. La signora ,la padrone del palazzo, aveva tre figli, una femmina e due maschi. Essendo una persona benestante, tutti i giorni si recavano a palazzo alcune serve per pettinarla e aiutarla nelle faccende di casa. Un giorno una zingara che si era accampata nella valle del fiume Basento ai piedi del paese, passò da quelle parti e sapendo che lì era nascosto un tesoro, tentò di intrufolarsi. Entrata con la scusa di pettinare i capelli alla signora entrò nel palazzo vide la bella figlia della padrona. La rapì e la portò con sé fino a farle dimenticare la sua famiglia. La padrona del palazzo attese per anni, invano, il ritorno della figlia. Un giorno gli zingari tornarono ad accamparsi nella valle del Basento, proprio nei pressi di Bernalda. La fanciulla rapita era ormai diventata donna e mentre camminava udì il suono delle campane della chiesa Madre. La ragazza incominciò a chiedere insistentemente per chi quelle campane suonassero a lutto. Doveva essere per forza una persona importante e gli zingari che avevano già saputo della morte della signora del palazzo Ammic le dissero la verità. Spinta e guidata dal sentimento, decise di recarsi in paese a far visita alla madre ormai morta. Gli zingari le diedero il permesso di andare in paese a patto che giurasse di ritornare , lei accettò e la accompagnarono fin sotto le mura del paese. Chiese ad una donna che cosa fosse successo e questa le raccontò ciò che era accaduto tanti anni prima e che talmente forte era stato il dolore di questa mamma che si era ammalata fino a morire. La fanciulla afflitta e addolorata, si recò al palazzo paterno dove viveva la sua famiglia per salutare un’ultima volta la salma della madre. Nessuno la riconobbe. Si chinò verso la bara di sua madre e pronunciò queste parole: “Signura mia signura, tu jer a pampn e ii jer l’uv, dnar n’ tniev senz misur ma nun ma saput ammuntuà la mia vntur” (signora , mia signora tu eri il tralcio e io ero l’uva , di denaro ne avevi senza misura, ma non hai saputo indovinare la mia ventura). Udite queste parole, i fratelli capirono che si trattava della sorella rapita anni addietro e la supplicarono di restare a palazzo, ma ella, memore della promessa fatta agli zingari,volle andar via. Un fratello la rincorse ma non riuscii a raggiungerla, si affacciò dalla finestra che dava nella valle, accecato dalla rabbia, le sparò dei colpi di fucile e la uccise, togliendola così agli zingari che l’avevano rapita. Oggi a palazzo Ammicche c’è una finestra murata che si affaccia sulla valle e la leggenda dice che lo spirito della signora è fuori da questa finestra che aspetta ancora la figlia. Dove la fanciulla fu uccisa è tutt’ora denminato “U cuozz d l zingr”. * Palazzo Ammicc deriverebbe dal nome della famiglia proprietaria, i Lambicco o i D’amico.

Alcune leggende del Natale in Basilicata / Lucania

La notte della vigilia di Natale una donna si recò alla fontana con il secchio per prendere l’acqua.Il mattino seguente al risveglio trovò una incredibile sorpresa, il secchio era pieno di olio e non di acqua.Il nonno, testimone di quel prodigio, prese a raccontare la leggenda di una povera mamma che alla vigilia di Natale voleva preparare le frittelle ai suoi sette figli, ma non aveva olio per friggerle.Si rivolse ai vicini e questi non vollero dargliene. La donna, mortificata, prese il
secchio e andò alla fontana del paese per prendere l’acqua e con grande sorpresa il secchio si riempì di olio…..
La Vergine allattava il suo Bambino e di latte ne aveva tanto che quando Gesù smetteva di poppare, spesso il latte continuava a fluire. Avvenne un giorno che, per distrazione della Madonna, una goccia cadesse per terra. Una rondine, più affamata delle altre prese quella goccia di latte nel becco e stava per inghiottirla. Ma ci ripensò e decise di consegnarla al Signore Iddio, cui apparteneva. Il Signore Iddio ringraziò la rondine. Poi raccolse la goccia nel cavo della mano, ci soffiò su e la lanciò nel cielo. Ed ecco subito formarsi una grande striscia bianca. E la striscia bianca si prolungò, seguendo la corsa della goccia, per tutto l’inverno. Era come un gran fiume di latte, formato da infinite gocce che poi sono le stelle. Lungo questo fiume, che unisce la terra al cielo, camminavano le anime dei morti per il Paradiso. E alla vigilia di Natale, ogni tavola viene apparecchiata con nove portate, quante sono, secondo la leggenda, le case alle quali bussò la Madonna prima di trovare asilo.

Albano di Lucania e le sue storie

Piazza San Pietro
La Piazza San Pietro è tappezzata di ossa. Circa 40 anni fa, hanno trovato il corpo di una fanciulla avvolto in un abito bianco, ma soltanto un operaio è stato testimone di quella apparizione fugace. Aveva appena tolto il coperchio della bara quando gli apparve a suo dire una Santa come se fosse viva e vestita a festa. Un attimo dopo quell’essere soprannaturale si volatilizzò. E allo spettatore apparve soltanto un’esile striscia di polvere grigia. Ai bordi della cassa giacevano un pettine e una bambola.
la Roccia dell’Ischio
Si narra che la Roccia dell’Ischio, un monolitico distante 1 Km. dal paese, custodisca un vitello d’oro, monete e tanti gioielli. La porta della spelonca, invisibile per tutto l’anno, si apre nell’attimo della consacrazione dell’ostia durante la notte di Natale e rimane aperta fino all’alba. Chi desidera impossessarsi del tesoro, deve sacrificare al diavolo la vita di “un’anima innocente”. Senza l’uccisione di un bambino, chi entra, rimane imprigionato e viene inghiottito nelle viscere della terra.
Rocca del Cappello
Sulla sponda sinistra del fiume Basento all’altezza di Albano, sull’orlo di un precipizio di fronte alle Dolomiti Lucane, torreggia un immane monolitico in arenaria alto più di 10 mt., sulla cui sommità poggia un’enorme masso che dà l’idea di un enorme cappello di fungo ombrelliforme, dal quale il monolitico prende il nome di “ROCCA DEL CAPPELLO”. Questi massi erratici sono i segni imperituri della venerazione di sassi radicata nella coscienza religiosa umana sin dall’età preistorica. Sul lato S.E. del monolitico è inciso un cerchio con ai lati due brevi scanalature a destra. Nell’area circostante sono presenti alcune grotte e mura di contenimento a secco, un sentiero da località Monticello discende fino al monolitico. Percorrendo tale sentiero, sulla sinistra si nota un monolitico alto 7 mt. detto “ROCCA MOLARIA”, e su uno dei suoi gradini è stilizzato un simbolo che sembra un fiore a 4 petali o una palmetta. Lungo tutto il sentiero vi sono 5 coppie di vasche scavate nella roccia, ricavate su due livelli e comunicanti mediante un foro. Infine al lato S.E. della Rocca del Cappello è scolpito un grande volto umano e sul fianco di un altro spuntone in arenaria levigato è inciso un segno di croce latina.
Presso la Rocca del Cappello è stato rinvenuto un monogramma inciso su una lastrina di pietra rossa, che potrebbe rappresentare il famoso “Nodo di Iside” (pezzo di stoffa annodato in modo particolare), che fu l’amuleto più diffuso tra gli antichi egizi.

Il castello di Cancellara e le su storie

Alcuni anziani raccontano che questo castello fosse più grande dell’attuale, che ad esso si univa una cinta muraria che racchiudeva il paese e che riusciva a difenderlo; non è inusuale che si sia conservato solo la dimora principale, mentre le altre superfici furono adibite ad abitazioni private. Si racconta che quando fu costruito il castello, l’architetto, ignoto, volle costruire ben 365 stanze, tante quanti i giorni dell’anno; forse perché così il barone poteva goderne la luce da ogni angolo. A proposito della luce vi è un aneddoto molto interessante; pare che ancora oggi, qualcuno conosce una stanza del castello dove non compare per niente la luce. Molti hanno tentato di illuminarla senza riuscirci. Altra leggenda è quella della stanza del tesoro: pare che ci fosse una stanza contenente un tesoro il cui pezzo pregiato fosse una chioccia d’ oro con i pulcini anch’ essi dorati. Come ogni castello anche quello di Cancellara pare avesse un passaggio segreto che sbucasse fuori dal centro abitato, si presuppone vicino la fiumara.

Il monachicchio


Secondo la tradizione il Monachicchio era lo spirito di un bambino morto prima di ricevere il battesimo.
Uno spiritello d’aspetto gentile, bello di viso, con in testa un berrettino di color rosso, “u cuppulicchii” (il cappellino). Appariva per lo più ai bambini come lui, e con questi trascorreva molto tempo a giocare, a ridere e a rincorrersi.
Quest’ultima cosa era la più desiderata da lui, in quanto sapeva che i compagni di gioco facevano a gara per toglierli “u cuppulicchii” . Chi riusciva, infatti, a strapparglielo dalla testa, si metteva a raccogliere monetine d’oro che copiosamente cadevano a terra con un caratteristico tintinnio.
Il Monachicchio, al contrario degli spiriti malefici, si mostrava ai bambini sia di giorno che di notte.
La sua presenza non dava mai fastidio, anzi faceva piacere perché si presentava sotto le sembianze di un folletto ed era, quindi, molto vivace, scherzoso e giocherellone.
I suoi lazzi preferiti erano: togliere le coperte dal letto, fare il solletico ai piedi e sussurrare dolci parole negli orecchi delle ragazzette.
A queste, specie se erano paffutelle, leccava delicatamente le guance. Molte volte si posava come un incubo sul corpo delle persone, oppure s’introduceva nel letto per sollevare il cuscino dalla testa e soffiare nelle orecchie dei dormienti.
Spesso si divertiva, durante la notte, ad annodare i peli della coda di asini e muli e la criniera dei cavalli, sotto la cui pancia si faceva trovare all’alba, quando i contadini si levavano dal letto.
La mattina, mentre i padroni degli animali erano intenti allo scioglimento dei nodi, il Monachicchio assisteva divertito al paziente lavoro e rideva a crepapelle se non riuscivano a slegarli.
Poi, tutto soddisfatto, battendo le mani, spariva nel suo fantastico mondo ove abitava in una grotta ricca di tesori.

Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” lo descrive così: «I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti.
Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il acre, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare.
Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili.
Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. Tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato.
Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercarli di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lacrime, scongiurando di restituirglielo.
Ora i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori.
Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentano fino a che non ti abbia accontentato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà.
Ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e salti di gioia, e non manterrà la sua promessa».

http://www.associazionefinisterre.it/cinti/cintidellamemoria_storie_monachicchio.htm

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