Geografia emozionale e la Basilicata

Può la Basilicata essere luogo di emozioni? In che senso i luoghi di questa terra hanno e danno emozioni? Si può definire un atlante delle emozioni?O addirittura mapparle? Una mappa è un insieme di luoghi e linee fisiche, con attinenza al reale comune e condiviso.

Tutti sanno dove andare e come fare per andare. La mappa delle emozioni è uno spazio non condiviso, solitario ma ugualmente condiviso da esperienze comuni. Una cartina fisica non ha bisogno di esperienze condivise
per essere letta e pur avendo un codice linguistico universale è paradossalmente individuale, non c’è comunione. Un atlante emozionale nella sua individualità di emozioni è un percorso condiviso dalle esperienze simili che creano in quest’ottica una comunità esperenziale. In questi giorni ho seguito delle lezioni di Dario Pinton storico dell’arte e consulente per la Biennale d’Arte di Venezia e tra i docenti del Peggy Guggenheim Collection a Venezia ,u n percorso mentale sullo sguardo, sul territorio sulle mappe reali e concettuali e sono venuto a conoscenza, o per meglio dire ho incontrato, “L’atlante delle Emozioni” di Giuliana Bruno. Ha attirato la mia attenzione in maniera violenta e subito ho collegato la Basilicata con questo Atlante. A questo punto mi sono domandato: ” la realtà che ci circonda quanto è influenzata dalle emozioni, gli sguardi i paesaggi, quanto influiscono sui nostri percorsi e quanto nella trasformazione da cartina stradale a mappa emozionale? E i pensieri diventano immagini: i calanchi di Aliano, i boschi del Pollino, i sentieri di Gallipoli Cognato, o l’apparente infinita Bradanica, la violenza della mutazione paesaggistica della Basentana, i borghi picchettati quà e là, l’ordine imposto alla natura dei campi coltivati nel Metapontino o del Vulture. O penso alle storie di ogni luogo, alla cultura immateriale che da voce a manufatti, altrimenti silenti e invisibili, degni di Italo Calvino : « Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. » (Marco Polo) Subentra la sensibilità tattile, visiva, percettiva in ogni sua forma, in ogni sua dimensione. Una sensibilità molto personale e al contempo condivisibile. Una nuova frontiera del viaggio e delle’esplorazione. Un viaggio che esalta nella mappatura la dimensione geo-conoscitiva di un territorio. Un viaggio che si integra con la dimensione del cinema, dell’immateriale, della storia, dell’esperienza dell’abitante; tutto viene mischiato e violentemete frullato con la propria personale esperienza. Per questo dico personale e condivisibile, poichè la condivisione finisce nel punto in cui , come una ricetta magica dell’alchimista medioevale Roger Bacon, inizia il personale. E’ diventare l’ Hobo tanto descritto da Jack Kerouac o immergersi negli appunti di Chatwin. Ritorno al punto iniziale, la geografia emozionale entra fortemente in contrasto con il nonluogo, definito da Marc Augè in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, eccetera. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o come porta di accesso ad un cambiamento (reale o simbolico). I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Quindi la geografia emozionale diventa IL LUOGO dove ognuno si ritrova o si trova. Una bella definizione è data da Laura Broggi di Aria: “In un’epoca di sovraccarico visivo, proprio le immagini sembrano non bastare. La città, il paese, tornano a essere uno spazio da percorrere. Si desidera riscoprire un luogo per l’emozione che trasmette piuttosto che per il tempo, inutilmente accelerato, che costringe a scandire. Lo si desidera ascoltare anziché guardarlo come semplice catalogo di superfici esteriori: palazzi, oggetti, abiti o atteggiamenti che dir si voglia. Geografia emozionale vuol dire guardare a cose e persone e ascoltare ciò che riaffiora alla mente magari anche in relazione alle cose più improbabili. Pensare a persone mentre si guarda un pianoforte, una vetrina, un’opera d’arte, una strada”. La Basilicata è un’opera d’arte che suscita delle emozioni? Io ne sono fortemente convinto; la Basilicata è una dimensione sensoriale. Poi, forse, per convenzione e vivibiltà ordinata, evitando l’anarchia dei sensi, la Basilicata è anche un territorio con due province e 131 comuni, con due mari e alcune montagne,ecc, ecc. Ma in nessuna cartina , neanche con l’aiuto dei cartografi cinesi, raccontati da Borges in Storia Universale dell’Infamia , troverete le indicazioni per la Basilicata Emozionale. Bisogna esserci dentro! Appunti di lettura:

Dedicata a delle mie amiche svigliane che seguono questo blog. L’ho scritta durante il periodo trascorso in Andalucia.

ANDALUCIA SOLO HAY UNA

Andalucia che illusione
Luogo d’amore e di sogno
Di colori e di ricordi
Di sevigliane, tori e donne.

Andalucia che tristezza
Luogo di rivendicazione
Di treni persi e di lamenti
Di sevigliane, tori e di donne.

Andalucia unica e sola
Sola con gli andalusi
Uomini di donne e birre
Di sole, poeti e cantanti.

Andalucia: solo c’è ne una
Altrove cambia nome

Andalucia solo c’è ne una
Due sarebbero troppe.

Andalucia solo hay una!

Palla a due

PALLA A DUE
Due al centro del cerchio.
Gli altri otto intorno.
Tutto è pronto.
Tutti pronti a schizzare in alto, a scattare lateralmente o in avanti o a rincorrere qualcuno più abile e fortunato di lui che si sarebbe proiettato verso canestro.
Di là dal cerchio, oltre, fuori dal rettangolo, molti, tanti occhi attendevano di seguire ogni movimento, ogni smorfia.

Stava per iniziare una partita di basket, o pallacanestro.
A dir il vero, stava per dare il via, non una partita qualsiasi, ma alla partita.
L’incontro che avrebbe deciso l’intera sorte di una stagione.
La sfida che poteva significare l’apoteosi o la distruzione di un’intero gruppo e di tutte le persone coinvolte.
Le due squadre avevano avuto, fino a quel punto, un percorso strepitoso. Niente e nessuno sembrava reggere alla loro marcia inarrestabile. Le squadre avversarie cedevano una dopo l’altra. I giocatori avversari uscivano quasi sempre a capo chino consci della loro impotenza. Dopo ogni gara, i
giocatori vittoriosi si sentivano imbattibili, padroni del palazzetto e del mondo che li circondava.
Ora, da quel preciso momento in poi il regno si sarebbe consolidato o sgretolato.

La notte precedente non era stata una notte tranquilla.
L’adrenalina era diventata la padrona del corpo di ogni giocatore. La mattina sembrava non arrivare mai e a giorno inoltrato non si cercava altra compagnia che quella dei compagni di squadra.
Il pomeriggio dopo pranzo sembrava infinito e il borsone, lì pronto per essere prelevato, aspettava con ansia il momento della presa.
Si voleva essere già lì. Lì dentro il campo, per scacciar e respingere tutte le paure e le ansie e lasciare libero sfogo all’istinto, al talento, all’intelligenza, alla forza, all’agilità.
Si voleva essere dentro il campo, che si sarebbe trasformato nel solo luogo al mondo esistente, per liberare l’atleta. Per disincagliarlo dalle ansie dell’attesa di un confronto che si sapeva doveva arrivare ma che partita dopo partita, vittoria su vittoria diventata sempre più presente e assillante.
Unico modo per liberarsi da questo fardello era scaricarlo nel campo.
Varcato l’ingresso, linea che separava il mondo esterno dal palazzetto, il giocatore percepiva le responsabilità in tutta la sua gravità amplificata dall’attesa.
Negli spogliatoi il silenzio era l’unica cosa che i giocatori desideravano e le raccomandazioni e i consigli sembavano perdersi nel vuoto.
La mente era proiettata in avanti nel tempo e nello spazio. Nel momento successivo in cui l’arbitro avrebbe alzato la palla e il gioco avrebbe avuto inizio.

Le urla dei tifosi e i rimbombanti cori di incitamento, appena la squadra irrompeva nel campo, aumentava la velocità del sangue nelle vene. La testa di ogni giocatore seguiva un proprio percorso e i movimenti, i gesti, i rituali fatti fin allora, da anni, ogni domenica, ogni santa maledetta domenica, sembravano inopportuni e fuori luogo.
Si incitava i compagni ma soprattutto se stessi.
Si guardava l’arbitro, i compagni, l’allenatore.
Si cercava uno sguardo amico, si cercava sicurezza, ma ogni sguardo incrociato desiderava lo stesso.
Il pubblico ti chiedeva quello per cui lo avevi indotto a recarsi in quel posto, seduto tra quegli spalti in quel pomeriggio come ormai faceva ogni domenica da mesi.
Il pubblico voleva una sola cosa, la tua vittoria, la vittoria della sua squadra.
Non era lì per veder vincer la loro squadra o assistere allo spettacolo dello sport, era lì per veder vincere se stesso. Ognuno del pubblico si sentiva rappresentato da quei giocatori. Dalla palla in due in poi, ogni giocatore avrebbe rappresentato i volti, la voce di ogni spettatore.
Vincenti sarebbero stai portati in trionfo, pronti a godere degli applausi e dei sorrisi della gente o al contrario, perdenti, sarebbero stato considerati come dei Giuda che messi di fronte alla prova più importante avevano tradito se stessi e soprattutto chi aveva creduto in loro. Ma diversamente da Giuda non ci sarebbe stata possibilità di redenzione. Non esisteva una prova d’appello.
Di colpo, tutto nella testa scomparve e il nulla assorbì la mente dei giocatori.
L’arbitro aveva fischiato e la palla già roteava nell’aria.

Giorno triste nella casa tra cieloe mandarini


Giorno triste nella casa tra cielo e mandarini.
Tra i campi, a lato di un albero, trovo Igor steso a terra. Morto da un paio di giorni, credo. Non lo vedevo da qualche giorno, non rispondeva al mio richiamo: IGOR, IGOR. Non rispondeva al mio fischio che lui conosceva benissimo.
Non ci ho fatto caso. Era normale che sparisse. Lui era libero, senza catena, senza guinzaglio, senza collare,come tutti nella casa tra cielo e mandarini.
Era abituato ad andare e venire. Credevo che si fosse allontanato im cerca di compagnia femminile. Ogni tanto scompariva per qualche giorno e poi ritornava magro, stanco, affamato ma felice e scodinzolante. Veniva vicino con la testa china sapendo che lo avrei rimproverato ma sapeva che lo avrei accarezzato, dandogli anche qualche pacca sulla testa.
Anche ora, lì steso al suolo l’ho accarezzato. Lui,però, non ha scodinzolato ne roteato, come faceva sempre quando era contento. E’ stato compagno fedele, mai invadente, mai eccessivo. Era li, silenzioso, con gli occhi a seguire ogni movimento. Con il suo abbaiare forte e cavernoso era il primo ad avvisarti che qualcuno era al cancello.Era il primo ad accoglierti al rientro e l’ultimo a lasciarti quando andavi via.
E’ stato inevstito da un’auto. Questo era il suo destino. Lo presi tanti anni fa, da un canile municipale dopoo che era stato investito, anche allora, da un’auto. Erano lui e la sorella, mi dissero. Quella volta, Igor sopravvisse, la sorella no.Igor é, scusate, era un pastore maremmano, dolcissimo ma diffidente. Giocava con i gatti, divideva con loro il mangiare. Era il padrone indiscusso di quel territorio.
Romeo, un piccolo meticcio, era la sua ombra e si sentiva al sicuro. Entrambi bianchi, entrambi girovaghi per il loro “feudo”. Erano belli da vedere insieme. Lola, una pastore maremmano, li aspettava e quando ritornavano li ringhiava e li rimproverava. Come una donna rimprovera i suoi uomini quando non tornano presto a casa. Quel giorno, proprio Lola mi ha accompagnato e indicato il corpo inerte di Igor. Mi prendevala mano e mi tirava. Seguendola ho visto da lontano la sagoma, Ho Chiamato: Igor, Igor. Ho fischiato. Già sapevo.
Arrivato da lui, gli ho accarezzato il capo, ma lui non ha scodinzolato.
C’è tristezza tra gli abitanti della casa tra cielo e mandarini.

A Igor, ma anche a Byron, Ashua, ed altri fedeli amici che in passato mi hanno regalato momenti splendidi, dedico questa poesia di Pablo Neruda

ODE AL CANE
Il cane mi domanda
e non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare
e i suoi occhi
son due domande umide, due fiamme
liquide interroganti
e non rispondo,
non rispondo perchè
non so e niente posso dire.

In mezzo ai campi andiamo
uomo e cane.

Luccicano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
ad una ad una,
salgono dal suolo
tutte le arance
a collocare
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte e verdi,
e uomo e cane andiamo
fiutando il mondo, scuotendo il trifoglio,
per i campi del Cile,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta,
corre dietro alle api,
salta l’acqua irrequieta,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra
e porta la punta del suo muso
a me, come un regalo.
Tenera impertinenza
per palesare affetto!
E fu a quel punto che mi chiese,
con gli occhi,
perchè ora è giorno, perchè verrà la notte,
perchè la primavera
non portò nel suo cesto
nulla
per cani vagabondi,
ma inutili fiori,
fiori e ancora fiori.
Questo mi chiede
il cane
e non rispondo.

Andiamo avanti,
uomo e cane, appaiati
dal mattino verde,
dall’eccitante vuota solitudine
in cui solo noi
esistiamo,
questa coppia di un cane rugiadoso
e un poeta del bosco,
perchè non esistono
uccelli o fiori occulti,
ma profumi e gorgheggi
per due compagni,
per due cacciatori compagni:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi
una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respira, cresce,
e l’antica amicizia,
la gioia
di esser cane e di esser uomo
tramutata
in un solo animale
che cammina muovendo
sei zampe e una coda
intrisa di rugiada.

…dopo più di 10 anni.

Oggi, 09.09.08, ero sulla fondo valle dell’Agri direzione sud. Come al solito ero affascinato dalle strade e dai panorami della Basilicata ma ad un certo punto, verso la fine della strada ho visto, anzi rivisto, un casello ferroviario che immediatamente mi ha rimandato indietro a dieci anni fa. In passato avevo l’abitudine, la buona abitudine, di avere con me un diario di viaggio. All’epoca viaggiavo quasi sempre in autostop.
Ho cercato tra i vari cassetti e ho trovato gli appunti di quei giorni. Precisamente di quel giorno d’agosto di undici anni fa, era il 4.08.1997.
Io e un mio collega universitario(Marco A.), avevamo appuntamento a San Brancato di Sant’Arcangelo. Di lì, poi, insieme ci saremmo dovuti recare da un certo Pasquale A., pastore e suoantore di uno strumento a fiato ( tipo flauto) da lui creato.
Uno dell’ambiente universitario di antropologia culturale ed etnomusicologia parlò di lui al dipartimento. Ci mandonrono immediatamente mandarono, io e Marco, ad incontrare e intervistare Pasquale.
Arrivammo da lui come un troupe televisiva, armati di telecamere, faretti, registratori, macchine fotografica ecc. Immaginate dieci anni fa, appena dieci, quale ingombro potevano avere questi marchigegni. Meno male che Marco venne in auto.
Passamo tre giorni tra le campagne e boschi,di Roccanova e Sant’arcangelo. Tre giorni con Pasquale, la sua musica, le sue pecore e suoi cani. Ma questa è un’altra storia.
Di quei giorni ho trovato, tra gli appunti, le note del viaggio di andata e qualche fotografia di Pasquale. Il resto credo sia conservato nell’archivio del dipartimento dell’Università.

Ecco il racconto di quel pomeriggio caldo di agosto:

4/8/97
Sono partito da casa che erano quasi le tre, dopo trenta minuti più o meno, ed aver lasciato la Basentana, sono al bivio di Craco – Pisticci.
C’è una fontana, un pilaccio; l’acqua è fresca e saporita e il suo gusto rimane nel palato.
Mi sposto alla ricerca d’ombra.
Alla mia destra si vede, lì su un colle, la torre della vecchia città di Craco, alla sinistra Pisticci.Tutto intorno non varia mai, il colore, la luce. Sono dentro i calanchi. Cammino nel suo cuore. Ogni tanto mi volto, mi sembra di sentire il rumore di un auto in arrivo. Non è sulla mia stessa strada. Il rumore è di un auto che percorre chissà quale strada vicina.
Avverto di tanto in tanto odori d’animali morti, in stato di putrefazione.
Vedo anche delle carcasse che qualche automobilista distratto e veloce ha lasciato dietro di se.
Mi tolgo gli occhiali da sole per non avere filtri.
Cerco un po’ di ombra, ma intorno solo calanchi e qualche arbusto bruciato dal sole.
I calanchi mi fanno venire in mente le mani d’anziani contadini bruciate dal sole e indurite dai calli del lavoro.
Alle 15.40 circa, un uomo si ferma con la sua auto e mi carica. Mi lascia dopo alcuni chilometri su un cavalcavia.
Aliano- Santarcangelo a destra, Tursi a sinistra.
“ Circa duecento, trecento metri in fondo, c’è una vecchia stazione d’autobus abbandonata. Però qualche auto si ferma ogni tanto.”- Mi dice l’automobilista.
Sono sulla s.s. 598, fondo Val d’Agri. La stazione è molto più che a trecento metri. Alle mie spalle i calanchi s’allontanano con loro anche l’aria rarefatta dal calore. Un paesaggio più verde e ospitale s’estende ai lati della strada. Gli alberi e le colture rinfrescano l’atmosfera.
Arrivo alla stazione abbandonata. C’è una fontana. L’acqua è fresca e piacevole, mi rinfresco il collo e mi bagno i capelli, sento l’acqua scivolare giù per la spalla.
Oltre a me nel piazzale della stazione c’era un vecchio, mezzo cieco, mezzo zoppo e, mi accorsi dopo, mezzo rimbambito.
Lancia bottiglie e carta sulla strada.
Mi chiama a se e il suo interesse sono i miei occhiali da sole. Mi chiede se sono occhiali da sole. Gli piacciono. I suoi sono anche loro tutti neri ma sono da vista e con orgoglio mi racconta che gli sono costati duecentocinquanta mila e in più ha pagato settantacinque mila per la vista oculistica. C’è un suo amico che se li vuol comprare però gli vuole dare solo mille lire.
Sono le 16: 30 circa.
Alle 18: zero ho appuntamento con Marco a Sant’arcangelo. Penso di essere a trenta chilometri dal paese.
Gioco con la mia ombra proiettata sull’asfalto.Il vecchio si è spostato all’altro lato della strada.
Non so precisamente che cosa faccia qui. Mi ha detto che deve andare a Montalbano.
Intanto, continua a lanciare oggetti in mezzo alla strada. Spezza dei rami e li scaraventa sull’asfalto.
Ogni volta che un auto passa su qualcosa lanciata da lui si mette a ridere, e ride con soddisfazione. Ad essere sincero faceva ridere anche me. Questa strada è percorsa da molte auto ma nessuna finora si è fermata.
L’aria è meno calda ed afosa
Il passaggio dai calanchi ai frutteti è improvviso, per niente graduale. I colori anche qui sono forti e vivaci. Il contorno stride con la stazione, con le sue tinte, sbiadite dal passare del tempo e delle stagioni. Le lettere del nome della stazione, attaccate sul muro si stanno sbriciolando. Altre si sono staccate lasciando l’orma sul muro; ancora si riesce a leggere la scritta Montalbano J.co.
Intorno alla costruzione, nel gran piazzale, giganteschi salici piangenti creano ombra.
Ore 16: 30, un ragazzo con una Uno bianca si ferma.
“Santarcangelo. Verso Santarcangelo?” Chiedo.
Mi guarda, sorride, mi fa cenno con la testa di salire.
“Ti ho visto sulla strada, prima ancora ho visto quel vecchio. Pensavo fosse successo qualcosa.” Dice.
“Poco fa ho soccorso un tipo che s’è ferito, cosa da poco, in un piccolo incidente sulla strada. Poi sono ritornato in azienda, dove lavoro, ho preso il muletto e ho spostato la sua auto dal centro della strada.”
Gli chiedo dove lavora.
“In un azienda agricola”, risponde.
“È grande oltre duemila ettari. Il proprietario possiede la maggior parte delle terre da qui fino a Policoro. Neanche lui sa precisamente dove finiscono ed iniziano”
Il ragazzo è simpatico e sembra anche abbastanza sveglio.
“Come ?!” Esclama quando gli dico di non conoscere questo De Ruggieri, padrone di tutte queste terre.
“ Per farti un esempio. Il castello ed il borgo vecchio di Policoro sono di De Ruggieri.”
Non riesco ad immaginare come si possano possedere duemila ettari di terra. Provo a visualizzare il viso ed il comportamento di questo feudatario del duemila.
Cambio argomento e gli chiedo informazioni su Sant’arcangelo.
“ Non c’è vita perché non c’è gioventù. E non ci sono giovani perché non c’è lavoro”
Il ragazzo mi racconta storie già ascoltate e conosciute. È la storia di tutti questi paesi del sud e profondo centro sud, tagliati fuori dei programmi di sviluppo.
“Solo nella provincia di Parma”, continua, “ ci sono circa sessanta ragazzi tra i venti ed i trent’anni. Poi ci sono altri che sono andato a Reggio Emilia, a Ferrara, Modena. Qualcuno è andato in Svizzera dove aveva dei parenti. La nuova America o Germania, oggi è l’Emilia Romagna. La c’è lavoro e anche il divertimento. Non è mica come qua.”
Dopo un po’ di chilometri arriviamo in paese.
Mi chiede se devo andare in un posto preciso nel paese. Gli dico che devo fermarmi a San Brancato, vicino alla stazione dei carabinieri, dove ho appuntamento con Marco.
“ Io vado a Sant’arcangelo. Faccio il giro lungo e ti accompagno”
Mi porta al luogo dell’appuntamento e scendo.
“ Grazie”, dico e “ io mi chiamo Giuseppe”
“Vito”. Sorride come quando s’è fermato e se ne va.
Sono le 17: 00 passate.
Dovrò aspettare un’ora prima che Marco arrivi

La casa tra cielo e mandarini

La casa tra cielo e mandarini si immerge nel verde
e sfoggia il bianco dei deboli fiori
che al primo soffio di vento
travestono il terreno di neve di petali.
Intorno, danzatori alati e leggeri lambiscono il fogliame.
Dalla casa tra cielo e mandarini
si afferra il rumoreggiare del fiume
che sotto un ponte di cemento
scorre lento e scarno
confuso tra le piante
curve verso il mare
e sopravvissute all’inverno.
Le nevi delle montagne
iraconde e fangose
lasciano il segno sugli agri della valle
e sui visi degli uomini.
L’antico letto
casa natia del bizzoso fiume
non perde la cortesia
e alloggia giovani alberi boriosi
che solleticheranno il cielo.
Nella casa tra cielo e mandarini
s’avverte l’odore della terra ubriaca di pioggia,
della polvere arsa dal solleone che si inchioda sulla pelle.
Ciottoli solcati da trattori segnano un sentiero
che termina d’improvviso il suo percorso.
Ammansito sulla strada ferrata,
il treno diviene padrone dispotico del cammino.
Le erbe insistenti si confondono con i bordi ferrosi
e mutate nel colore non abbandono luogo.
Nella casa tra cielo e mandarini
comprendi i segnali delle stagioni.
Il primo sole traditore non illude
i primi piovaschi violenti non intimoriscono.
La primavera è accertata dalle operose rondini
che ricostruiscono il nido.
L’inverno si annuncia con gli arancioni frutti
che pendono irriverenti.
Tra cielo e mandarini
Sotto le stelle o fronte al fuoco
una casa racconta le storie
dei docili fiori che si trasformano in scanzonati frutti
del gorgogliare del fiume e dello stridere del treno
del gioco senza fine tra sole e luna
mentre un cane fidato osserva distratto.

Distante

Distante
da questa terra
ho domato il giogo dell’asservimento.
Lontano da questa terra
sono perseguitato della mestizia della sua lontananza.
Avverto i suoi colori, sapori, le sue nuvole, le onde dei mari e il risciacquo dei fiumiciattoli.
Il profilo delle montagne picchettate da borghi silenziosi e scrutanti.
E il vocio dei suoi abitanti,
silenziosi,
domati
e sottomessi al giogo dell’asservimento.

Manifesto TCM

Manifesto 

Tra Cielo e Mandarini  è il luogo nel quale mi rifugio.E’ una dimensione che ognuno di noi possiede. Indefinita, vaga, eterea.  Una dimensione che non è intesa come fuga da altri luoghi, è un angolo dove ci si ritrova in sintonia con se stessi ee in cui si entra in  armonia con ciò che ci circonda. E’ un posto come tanti e tanti altri ancora nel mondo. E’ un luogo fisico e metafisico. Uno spazio che è anche e in primis dentro di noi; non si potrebbe proiettarlo fuori se non nascesse dal di dentro.

Un albero per andare in alto, nel cielo, fuori, ha bisogno di radici che scavino nelle profondità del terreno. La bellezza della chioma, la maestosità del fusto, il brillare delle foglie, tutto questo dipende dal lavoro oscuro e sporco delle radici.

Bene. A questo punto ne esiste uno reale( e anche faticoso alle volte), uno spirituale, presente in ognuno di noi e modo suo, ed ora anche virtuale.
Ripeto sono semplicemente e nient’altro che luoghi; fisici, dell’anima e on-line. Solo che io li chiamo Tra Cielo e Mandarini!

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