I campanacci di San Mauro e i Kukeri bulgari

Kukeri (fonte: eliznik.org)
Festa dei Campanacci San Mauro (fonte Mediateca Prov. MT)

Che c’entrano i Campanacci di San Mauro Forte e il Kukeri in Bulgaria?
A San Mauro Forte, nel cuore della Basilicata, i campanaci richiamano antichi riti sopravvisuti ai tempi e agli stessi uomini.Il collegamento non è solo simbolico tanto che quest’anno una delegazione bulgara sarà ospite dei…Campanacci ( vedi programma). Il Kukeri ha molte similitudini con i travestimenti e con i suoni presenti ai Campanacci di San Mauro e non solo; pensiamo anche ai Mamuthones della Sardegna. Tutti segni che scorrono su un filo sottile che attraversa l’Europa, la sua storia e le sue genti.
… Nella tradizione bulgara il Kukeri è un rituale che
si svolge nei villaggi rurali che risale ad origini tracie. Il tutto viene messo in atto nel corso degli ultimi giorni di inverno. Al rito prendono parte soltanto maschi, che indossano vestiti realizzati con pelli di pecora, campane appese alla cintura e maschere dall’aspetto orribile.
Lo scopo principale è quello di allontanare gli spiriti maligni che si ritiene che ritornino in vita nel corso della stagione invernale. Inoltre si vuole rendere propizie le forze della natura, per assicurare la fertilità del terreno. La danza ha il valore simbolico di assicurare la riuscita della semina e il gesto del danzatore che alla fine cade per terra sta a significare l’abbondanza della mietitura.
Particolarmente interessanti sono i colori variopinti della maschera e dei costumi. La danza segue l’andamento di pesanti ondeggiamenti per ricordare la spiga gonfia di grano. Si tratta di una messa in scena dei momenti più importanti del ciclo agricolo, in modo che essi diano i risultati sperati. In questa occasione i giovani sono soliti girare per le case, accolti dalla gente, che offre loro dolci e bevande.

Fonte : Antropologia GuideSuperEva

Quest’anno San Mauro Forte si gemellerà con la città bulgara Pernik, che segue i gemellaggi degli anni scorsi con Alba (Piemonte), Mamoiada (Sardegna), Cavenago di Brianza (Lombardia), Antillo (Sicilia), Melpignano (Puglia), Agnone nel molisano e Ardesio (Bg),e Castell’Arquato (PC).

Il Pizzicantò: le torri umane di Irsina

150 persone, almeno otto livelli o piani, a formare una torre umana. A Irsina, paese della parte bradanica della Basilicata, a pochi km da Matera si ripete a dicembre il festival delle torri umane.
Questa usanza è presente soprattutto nel sud italia, e prevalentemente duranta il 13 giugno, in onore di Sant’Antonio in cui la tradizione vuole che diverse squadre si sfidino nelle torri umane del
Pizzicantò Con ogni probabilità il pizzicantò si diffuse in queste regioni
durante la dominazione spagnola. In Spagna il gioco delle
“torri umane” è conosciuto dal XVII° secolo, ed è diffuso soprattutto nella regione della Catalogna. I
castellers spagnoli sono formati da molti piani, solitamente nove.
Da wikipedia riprendiamo la definizione:
Il Pizzic’Antò è una creazione culturale materializzatrice del dominio della verticalità e del sogno di superamento dei limiti delle antiche popolazioni dell’Italia del Sud.
Robusti giovani si tengono stretti con le braccia disponendosi in cerchio. Su di loro si arrampicano altri giovani fino a formare una “Torre” la cui altezza varia da luogo a luogo. Non appena raggiungono l’equilibrio, l’uno sulle spalle dell’altro, la “Torre” inizia a ruotare su sé stessa al ritmo di strofe che alludono al pericolo, sempre imminente, di un capovolgimento sociale: nel continuo ruotare coloro che sono di sopra devono reggersi stretti per non cadere, così come chi è di sotto deve reggere con forza chi è sovrastante.
Il 16 novembre 2010 l’UNESCO ha dichiarato queste rappresentazioni patrimonio immateriale dell’umanità.

Il sito dell’Associazione Giochi Antichi riferisce che Pizzicantò è diffuso anche nel napoletano, detto pizzichendò, e a Palermo con il nome di Vara.

Basilicata il rito delle le Torri era presente:
Melfi (Pz) durante la Tredicina di Sant’Antonio dove prendevano il nome di Scaricavascio;
Irsina (Mt) si chiamano Pzzc’Antò e vengono costruite ancora oggi in onore della Madonna della Pietà;
Ferrandina (Mt) si allestivano in onore di Sant’Antonio;
Brindisi Montagna (Pz) Mariandò e pizzicandò un antico canto-gioco che si realizzava fino ai primi del novecento nel giorno dell’Annunciazione (25 marzo).

Ad oggi è presente il gruppo fb @torri di uomini in basilicata e su Twitter i catalani de #jovedesitges

Guarda i 3 video:

1)Irsina (MT) Pizzicantò- salita e canto
2)Irsina (Matera) Festival internazionale delle torri, Processione Madonna della Pietà 
3)Castel Lagopesole (Potenza) Torri umane catalane e lucane

lettura consigliata:
Gabriele Di Stasio, Torri di uomini in Basilicata, Roma, Arduino Sacco Editore, 2007
Donato Allegretti, A Brindisi Montagna e altrove, Manduria, Edizioni Filocalia, 2009, pag. 47.

www.tracieloemandarini.blogspot.com

La Madonna del Pollino (Basilicata) negli anni ’60

Grazie ad  una amica che, insieme ad altre persone, alcuni anni fa ebbi piacere di conoscere durante le riprese di un documentario franco-tedesco  ho scoperto un  filmato postato su Youtube,  che risale agli anni ’60. Il filmato mostra il pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Pollino, nel comune di San Severino lucano, nel cuore del parco del Pollino.

La festa della Madonna di Pollino, o  Madonna della Montagna,  è tra le feste mariane più sentite dell’asse montano calabro-lucano( –> Google Maps). Eccezionale è la descrizione e il repertorio fotografico consultabile sul sito dell’ISTITUTO CENTRALE PER LA DEMOETNOANTROPOLOGIA. Migliaia di pellegrini,ai primi di luglio, partecipano alla festa che si svolge al Santuario, a 1537 metri alle pendici del monte Pollino, su uno sperone, con una affascinante veduta panoramica sulla valle del Frido. Le musiche del filmato dovrebbero
essere dei Totarella

Intorno al santuario è festa. Gli odori della braci si mischiano alle musiche e ai canti dei pellegrini accompagnati dagli strumenti della tradizione come la zampogna, l’organetto ed i tamburelli. Ci si prepara per il pernottamento tra gli alberi intorno al santuario. Un forte senso di convivialità e gioia regna sui monti. Qui si rafforza quel tessuto connettivo di una società ancora fortemente legata a sistemi relazionali e riti di autodifesa, che altrimenti sarebbero stati già schiacciati da dinamiche post moderne e globalizzate. Qui il rito non si ferma si adatta e con esso la società nel quale si sviluppa.
Ma la “coscienza collettiva” si amplifica con il sacro che interagisce ma raramente si mischia con il profano. Quella coscienza collettiva che è l’insieme di rappresentazioni, norme e valori, condiviso dai membri di una società che ne determina la dimensione e la caratterizza.
Durante la processione della Madonna le donne portano i cinti di candele devozionali in testa. Al ritorno in chiesa della statua
I fedeli sfilano e salutano la Madonna, toccandole le vesti, mostrandole fotografie di congiunti, e li si raccomanda alla Vergine del Pollino. La Statua della Madonna del Pollino, farà ritorno al paese di San Severino lucano ai primi freddi di settembre.
La statua della Madonna che nei mesi invernali viene custodita nella chiesa di San Severino Lucano, all’inizio dell’estate viene portata in processione al Santuario. Farà ritorno a San Severino la seconda domenica di settembre.

Sull’origine del Santuario di Pollino, (1700 ca.), ci sono solo i racconti tramandati di generazione in generazione.
Ne trascrivo uno trovato nella rete: “la tradizione narra la SS.Vergine apparve ad un pastore che, nella montagna di Pollino, conduceva al pascolo il suo gregge. Vivamente impressionato della visione avuta, il pastore la divulgò rapidamente; e di bocca in bocca, quell’insolito avvenimento fu appreso in tutti i paesi circostanti al monte. Poiché quelli erano tempi di costumi semplici, di sentimenti religiosi più puri e più forti di oggi, sorse in molti il desiderio di vedere la Madonna.


Intanto a S.Severino Lucano, una donna di nome Rosa Maria, spinta dal suo forte sentimento religioso, cercò risolutamente la compagnia di sua cognata Vittoria, vedova convivente in casa sua, per andare al monte. Una mattina, infatti, presero entrambe a percorrere l’aspra e faticosa via che conduce al Pollino, col cuore trepidante, recitando preghiere, e preparandosi con lo spirito a pregustare le dolcezze di una visione sovrana: quella della SS.Vergine!


Narra la tradizione che la Rosa Maria aveva lasciato in casa il marito Antonio Perrone, affetto da lunga e inguaribile malattia, e il figliuolo immerso ancora nel sonno, di nome Michelangelo, che poi divenne prete. Giunte sulla montagna, le due donne si aggirarono per lungo tempo sul luogo dove, dalle indicazioni ricevute, presumibilmente la SS.Vergine era stata vista dal fortunato pastore. Dopo aver tanto camminato, esse sentivano gran sete e non potevano in nessun modo dissetarsi per mancanza d’acqua. Dopo fervide preghiere, a breve distanza da loro, improvvisamente videro sgorgare uno zampillo d’acqua da una grossa pietra conformata a conca. Accanto a questa pietra videro l’apertura di una grotta, nella quale si sentirono misteriosamente attirate e vi entrarono. La grotta, piccola, formata da grossi blocchi di roccia, é accessibile e visitata in occasione della festa, da migliaia di fedeli.


Le due donne, allora, appena penetrate nell’interno della grotta, si accorsero che in un canto di essa era ammucchiato del pietrame minuto commisto a terriccio in modo da far sospettare che sotto dovesse essere stata nascosta qualche cosa. Infatti in un grosso panno di lana era avvolta una piccola Statua della SS.Vergine col Bambino, quasi intatta, ma alquanto scolorita e sciupata nei lineamenti.


La Signora Rosa Maria, di ritorno a S.Severino, trovò il marito completamente guarito. Al racconto della moglie si inginocchiò in mezzo alla casa e fece voto di costruire sul Monte Pollino una cappella in onore della Vergine Maria. Così sorse, in piccola costruzione, il nostro rinomato Santuario, ai quale ogni anno, nei primo venerdì e sabato di luglio accorrono da ogni parte migliaia di fedeli, a gruppi a gruppi, sfidando i disagi della montagna.”

http://www.tracieloemandarini.blogspot.com

Il matrimonio …secondo Castelsaraceno

A Castelsaraceno , un piccolo centro di poco più di 1000 abitanti nella provincia di Potenza, fondato intorno

all’XI secolo, si svolge un rito arboreo di origine pagana sopravvissuto al tempo. I culti arborei sono molto vivi e sentiti in Basilicata.
Nella prima domenica di giugno si festeggia il taglio della ‘Ndenna, (vedi video)con grande concorso di popolo, che proviene non solo da Castelsaraceno, ma da tutto il circondario. Dopo la celebrazione della
Santa Messa mattutina, ci si riunisce nella Piazza di S. Antonio e con vari mezzi meccanici ci si reca al bosco di Favino, sul Monte Alpi, noto per la maestosità dei suoi faggi e per il suo habitat ancora incontaminato, attrattiva per i turisti soprattutto nel periodo estivo.
Nel bosco si va alla ricerca del faggio più diritto e maestoso che supera sempre i 20 metri di altezza e pesa tra le 13 e le 15 tonnellate. Una volta individuato l’albero, tutta la gente si avvicina e si procede al taglio con una motosega (una volta l’abbattimento avveniva a colpi di scure). Contemporaneamente, si scelgono altri faggi più piccoli, che vengono privati dei rami e trasportati sulla strada dai “paricchi” (coppia di buoi) e con i trattori. Sono le cosiddette proffiche, di altezza variabile dai 6 ai 10 metri, che serviranno per innalzare la ‘Ndenna.
Nel primo pomeriggio, inizia la discesa verso il paese. Dapprima sfilano le proffiche, che vengono depositate nella piazzetta. Per ultima è trasportata la ‘Ndenna da due coppie di buoi che fa il suo ingresso trionfale circondata da numerosissima gente, la quale accompagna la sua deposizione con canti e suoni tradizionali.
La Cunocchia è la chioma di un abete di 6/10 metri, che viene tagliata la seconda domenica di Giugno. Anche questa volta ci si riunisce in Piazza di S. Antonio e con camion ed automobili ci si avvia verso il monte Armizzone, al suono delle fisarmoniche e delle zampogne.
Verso le 15,30, con la Cunocchia in testa, si scende verso il paese, in corteo, arrivando fino al “Piano dell’Erba”.
Qui la Cunocchia viene presa dai giovani, che la trasportano a spalla per il paese. Si fanno continue soste e le pannodde fanno la loro parte. Tutta la gente si riversa lungo le strade ed offre vino, caffè, biscotti, in onore del Santo. Sul far della sera, si arriva alla piazzetta e la Cunocchia viene depositata in un angolo.

fonte: Basilicatanet
pro loco

Il FALO’ DI NATALE IN BASILICATA

Falò di Natale a Nemoli (fonte Pro Loco Nemoli)

Il Natale non è una invenzione della Chiesa bensì una sovrapposizione cultuale di derivazione pagana a seguito della conversione dell’impero romano alla religione Cattolica. Il Natalis era presente nel calendario romano, il 21 Aprile come Natalis Romae, in cui si celebrava la fondazione della città e il 19 dicembre , giorno dedicato al Dies Natalis Solis Invicti, la nascita del Sole che girava attorno al culto di Mitra, introdotta nel 218 d.C e ufficializzato da Aureliano. La festività venne successivamente spostata al 25 dicembre. Sembra che in uno stadio successivo i cristiani abbiano sostituito la festa del Sole Invitto con la Festa della Nascita di Cristo.

Alcune sopravvivenze(?) popolari , in alcuni centri più interni della Basilicata, hanno resistito ai nuovi riti creando un sincretismo con quelli preesistenti, di origine pagana e propiziatoria. Forse questa è una delle spiegazioni alla presenza in
alcune località lucane del Falò di Natale. A Nemoli e San Fele la notte del Natale si accendono falò la cui funzione simbolica sarebbe quella di riscaldare il Bambinetto appena nato, e proteggerlo dal gelo e freddo. Funzione che San Francesco, quando pensò al presepe, affidò al fiato del bue e dell’asinello.
A San Fele il fuoco dura tutto il giono di Natale e lo spegnimento delle fiamme indicano termine della giornata festiva. A Nemoli, in piazza si accatastano tronchi e legna che formeranno il grosso falò che verrà acceso alla vigilia di Natale che rimarrà attivo fino all’Epifania. Qui una comunità si incontra consumando i dolci della tradizione accompagnati dalle musiche pastorali delle zampogne e ciaramelle. Le fiamme e il fuoco, da sempre e in tutte le religioni e società, sono sempre stati indicati come  elementi di festa la cui simbologia era legata alla purificazione, alla scacciata dell’oscurità, del maligno e del negativo ma che aveva anche una forte valenza di rinascita. Inoltre il fuoco, che bruciava dentro il caminetto, era l’elemento centrale attorno a cui le famiglie lucane, povere e ricche si riunivano durante le giornate invernali.

www.tracieloemandarini.blogspot.com

La Madonna nella Barca (Tramutola, PZ)

Tramutola
Uno, due e tre spari.
E’ quasi buio, circa le 20 e 30, quando la Madonna dei Miracoli esce dalla chiesa Madre su una barca di fiori, lunga circa sei metri, illuminata dall’interno. Immensa è la folla, fuori al luogo sacro. Tanta è che il servizio d’ordine a stento riesce a contenere. Molti sono giunti, anche da fuori Regione, per assistere alla ultracentenaria processione della “Madonna nella barca”. “Unica e suggestiva” nel suo genere, la cui devozione trae origine dall’esperienza drammatica vissuta da alcuni emigranti tramutolesi in America. La statua
della Madonna è trasportata su una barca di rose, probabilmente a ricordare la devozione degli emigranti che a questo mezzo di trasporto affidavano le loro speranze per un futuro migliore. Ed è al suono di canti mariani, ed in un clima di profonda spiritualità e partecipazione che la statua della Madonna viene trasportata per le vie del centro storico del paese. A sostenerla, a spalle, una ventina tra giovani e adulti. Ad attenderla nel percorso del borgo antico, tra i vari rioni, composizione di rose e striscioni “Ave Maria Tramutola ti onora”. Lungo il percorso l’emozione è tanta ed il piccolo paese per questa grande festa, ha cambiato aspetto, circondato da un atmosfera sublime. Ogni angolo, circondato da fiaccole e fiori. Una comunità che nasce e cresce con questo culto verso la Vergine Maria.
La festa religiosa più solenne è collegata ad un avvenimento miracoloso. La tradizionale processione che si tiene il 17 maggio celebra infatti la Madonna dei Miracoli. «In un altro 17 maggio, quello del 1853 – si legge sul sito on line del Comune – la processione venne organizzata per invocare la pioggia, dopo che un periodo di siccità stava compromettendo la fertilità delle campagne. I testimoni presenti quel giorno giurarono di aver visto la statua della Madonna indietreggiare da sola, mentre i portatori “sentivano sospingere indietro da una virtù sensibile”. Questo fatto si ripeté 5 volte, in 5 punti diversi del paese. Dopo la processione, quando la statua era già stata riposta in chiesa, sul suo petto apparve una fiammella di un acceso color rosso. Il pomeriggio del giorno seguente la pioggia, tanto invocata, fece finalmente la sua comparsa. Da quell’anno il 16, quando le strade del paese ospitano la fiera e il 17 maggio sono per Tramutola giorni di festa.
L’ultima domenica di maggio, ancora nel nome della Madonna dei Miracoli, si svolge la particolare processione della Madonna nella barca ». Ad organizzare la manifestazione, la Parrocchia Ss Trinità, l’amministrazione comunale e la Pro loco che attraverso una nota stampa fa sapere che vuole inserire la manifestazione ”tra quelle di rilevanza regionale”, sottolineando che ”i pellegrini e i turisti che vi hanno assistito hanno sempre riportato delle forti emozioni”.
Angela Pepe – Il Quotidiano della Basilicata

Da leggere: FESTE RELIGIOSE IN BASILICATA

I turchi, San Gerardo, la iàccara, Potenza… e i catari

 

COMMEMORAZIONE DI SAN GERARDO
Parate e rievocazioni storiche in onore del Santo Patrono della Città di Potenza
Le parate e le rievocazioni storiche del giorno 29 maggio 2010, in occasione della commemorazione di San Gerardo, patrono della città di Potenza, prevedono tre ambientazioni che vanno a rappresentare tre periodi storici ben precisi, e cioè il XIX, il XVI e il XII secolo.
Il primo ambiente fa riferimento ad una nota descrizione che Raffaele Riviello riporta in un suo libro dedicato alle tradizioni del popolo potentino: in essa, il
Riviello racconta non solo il momento della parata cosiddetta dei Turchi ma anche tutto il clima di festa e di preparazione che precede la stessa parata. Per questo motivo, si è pensato di organizzare anche un quadro descrittivo di questa ambientazione che precederà temporalmente le parate e rievocazioni della serata: esso sarà messo in scena nel primo pomeriggio del giorno 29 maggio, a Piazza Matteotti, la vecchia Piazza Sedile, scena che riproporrà il popolo festante in attesa che, con travestimenti e con l’uso di trucco, si accinge a festeggiare il Santo Patrono.
Il secondo ambiente fa riferimento ad un documento storico del 1578 nel quale si descrive il popolo potentino che vestito alla turchesca e alla moresca accoglie in città il nuovo conte Alfonso de Guevara: per preparare questa quadro si è salvaguardata la tradizione della parata e si è inserita la rappresentazione di San Gerardo bambino che su una barca salva la città dall’invasione dei Turchi.
Infine, il terzo ambiente vuole rappresentare il momento di devozione verso “ u prut’tor ” e mettere in evidenza la religiosità dei potentini durante il XII secolo quando San Gerardo, dopo il suo vescovado durato dal 1111 al 1119, venne santificato vox populi divenendo Santo Patrono della città di Potenza.
Ogni quadro sarà preceduto da banditori che racconteranno agli spettatori tutte le scene con dovizia di particolari.
La parata, al contrario degli anni precedenti, seguirà un percorso inverso poiché partirà dal Campo Sportivo Viviani per giungere nel centro storico, attraverso Porta Salza e, si concluderà a Largo Duomo.
Così Raffaele Riviello, nel 1893, in Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del Popolo Potentino, descrive il rito della iàccara:
“Nella vigilia, in sull’ora del vespero, si portavano in città, a suono di pifferi, di tamburi, o di bande, le iaccare (fiaccate) , cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa.
Il trasporto di una iaccara formava una vera scena di brio e di festa per plebe e per monelli.
Molte coppie di contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno, vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato, o disegno di cannucce, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura, o immagine di S. Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere, per accrescere l’allegrezza della festa. E la gente si affolla per vedere, fa largo, e ride tutta contenta. Di tanto in tanto ì portatori si danno la voce per regolare le forze e i passi, si fermano per ripigliare un po’ di lena ed asciugarsi il sudore con una tracannata di vino; giacchè vi è sempre chi li accompagna col fiasco e li aiuta a bere, senza farli muovere di posto.
Come si giunge al luogo, ove è il fosso per situare la iaccara, la scena muta per folla dì curiosi, rozzo apparato di meccanica e timore di disgrazia. Si attaccano funi, si preparano scale ed altri puntelli; ed al comando chi si affatica di braccia e di schiena, chi adatta scale e grossi pali per leva e sostegno, e citi da finestre e da balconi tira o tien ferme le funi. E ad ogni comando si raddoppiano gli sforzi, si fa sosta e silenzio, secondo che nell’alzarsi lentamente la iaccara il lavoro procede con accordo di forze, o presenta difficoltà e pericolo.
Appena si vede alzata, prorompe un grido di gioia; tamburi e bande suonano a frastuono, e la gente con viva compiacenza guarda di quanto la iaccara supera in altezza le case vicine.
Le iaccare si innalzavano nei luoghi più larghi; in Piazza, innanzi alla Chiesa di S. Gerardo, avanti a lu Palazz’ di lu Marchese, (oggi Liceo), a Portasalza, di fronte a lu castiedd (Ospedale S. Carlo).
Per accenderle, la vigilia a sera, bisognava arrampicarsi sino alla cima, e non senza fatica.
Queste grandi fiaccole erano i fari fiammeggianti della festa per farli vedere da lontano. Ardevano tutta la notte, e illuminavano a giorno tutto il vicinato, la cui gente godeva e si divertiva a quella vista.”

Comitato tecnico-scientifico “San Gerardo MMX” è composto da Piera De Marca, Antonella Pellettieri, Rosario Angelo Avigliano, Gerardo Messina, Giovanni Montatori e Gerardo Viggiano.
Foto di Catepol 
 
Questa la parata.
Ma perchè san Gerardo e i turchi?
Forse perchè…la vulgata cittadina fa risalire la rappresentazione allegorica alla pretesa invasione di Potenza da parte di un esercito turco, il quale avrebbe risalito il fiume Basento fino a Potenza(???). I cittadini, quindi, impotenti dinanzi alla organizzazione militare degli invasori, si sarebbero rivolti al vescovo, Gerardo La Porta, e questi, invocando una schiera di angeli guerrieri, avrebbe compiuto il miracolo di liberare la città dai suoi nemici. Tuttavia, è improbabile che, in tempi geologicamente recenti, il fiume Basento fosse navigabile, inoltre non è storicamente riscontrata un’invasione turca riconducibile al periodo di S. Gerardo la Porta. Gerardo la Porta, già vescovo di Piacenza, verosimilmente ha cominciato ad essere venerato come santo protettore della città di Potenza (il protettore precedente era S. Oronzio, martire), dopo esservi stato mandato dalla Santa Sede per contrastare la diffusione dell’eresia catara. Difatti, è certo che i Catari, nei primi decenni del XII secolo, estendevano le loro ultime propaggini nell’Italia del Sud (pur avendo le loro maggiori comunità nel nord Italia e Oltralpe).
È plausibile che tali comunità spirituali, che assumevano la forma di forti ed influenti clan religiosi, abbiano incontrato la ferma opposizione da parte delle gerarchie cattoliche ortodosse, e che Gerardo la Porta, vescovo di Piacenza, abbia ingaggiato con loro uno scontro politico e teologico, fino alla neutralizzarne l’influenza presso la borghesia potentina. Da allora probabilmente la cittadinanza conservò con devozione la memoria del “liberatore”, attribuendo col tempo ai “Turchi”, il nemico per antonomasia delle popolazioni meridionali dei secoli successivi, il burrascoso evento e trasformandolo in una fantasiosa invasione armata.
E forse c’entra qualcosa la battaglia di Lepanto (1571) e l’arrivo del nuovo signore Guevara in città? 

S. Antonio Abate fra religione e arte

di Angelo Lucano Larotonda

L’UOMO – Si era nei primi secoli della nostra era quando in Egitto vi furono molti giovani desiderosi di diventare “perfetti” in Cristo. Per farlo scelsero la via della solitudine.
A Bisanzio primeggiava l’Impero col suo sangue, la sua porpora, i suoi ori, la sua lussuria. A fianco gli marciava la Chiesa alla conquista delle anime, dei cuori e delle menti. Ai giovani di simile mondo così organizzato il Vangelo proponeva, in alternativa, la follia dell’ eremita o il silenzio del convento posto in luoghi spesso inaccessibili. Il valore dell’ anima, il pericolo della sua perdizione, le molteplici potenzialità del corpo appesantito dai desideri della carne e perciò teso a subissare l’anima, erano le preoccupazioni di molti di quei giovani.
La prima virtù da acquisire era l’umiltà, che, come si sa, per realizzarsi incontra sempre il suo nemico principale, l’orgoglio. Questo si manifesta con molte parole, quella esige il silenzio. Non è il parlare che rompe il silenzio, ma la smania di essere ascoltati. Le parole dell’orgoglioso impongono il silenzio agli altri affinché possa far udire soltanto la propria voce. L’umiltà è invece silenziosa in tutto.
E venne un uomo che volle vincere il proprio orgoglio e vivere in umiltà assoluta. Il suo nome era Antonio. Nato da una buona famiglia di Coma (oggi Qeman), in Egitto, conobbe il mondo e le sue passioni. Si era nel 270 quando lui aveva vent’anni e si pose una domanda: “Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra, e dissi gemendo – Chi mai potrà salvarmi? – E udii una voce che mi disse: – L’umiltà -” . Fece allora una scelta radicale: vivere in assoluta povertà, in assoluta solitudine, in assoluto silenzio e sperare così di poter cogliere un giorno i sussurri soffiati del silenzio di Dio. Vendette tutti i suoi beni e cominciò i suoi giorni da eremita. Successivamente si trasferì in una tomba e vi restò vent’anni. Poi passò in una grotta del deserto della Tebaide. Vicino c’era il Mar Rosso..
Dentro la grotta, Antonio viveva col carico della sua fragilità umana e con la tenacia di non impazzire. Quella grotta divenne il suo speciale sepolcro in cui giacere “morto” al resto del mondo e nel contempo “vivo” a
percepire il silenzio di Dio. Ma per arrivare a ciò non bastava la devastante solitudine del corpo. Non la tormentosa ribellione dell’anima. Occorreva imparare a fronteggiare la lotta contro quelle che egli chiamava le tre ‘voci’ del corpo, costanti nemiche dell’anima. La ‘voce ‘naturale’ dei cibi e delle bevande che innescano la lussuria. La voce degli ‘assalti dei demoni invidiosi’ al basso ventre. Progressivamente vinse la prima con pane acqua ed erbe. Vinse la seconda col dolore del flagello e la sapienza della Bibbia. C’era però da vincere un terza voce che spingeva ai limiti dello spavento: la adiaphoria.
Essa consisteva in una condizione nella quale i confini tra l’uomo e il deserto, tra l’umano e il bestiale crollavano confondendosi paurosamente. Il rischio che si correva era quello di cedere alla tentazione di tradire la propria umanità, vagare libero per il deserto come bestia selvatica, mangiare qualche erba sparsa qua e là e lasciarsi andare all’ accidia, cioè alla immobilità dei moti dell’anima, al dissolvimento di ogni speranza di salvezza.
Antonio riuscì a restare sordo alla tentazione dell’adiaphoria e, grazie a tale volontà, conquistò quel perfetto equilibrio fisico e spirituale che dava la sensazione di sentirsi simile al primo uomo del mondo, Adamo.
Il silenzio costituisce dunque il paesaggio principale della vita di Antonio e di tutti Padri del deserto che si susseguirono per alcuni secoli. Antonio capì che più eloquente della parola, il silenzio la sdoppia, la sottolinea, la intensifica. Ne è come il contrappunto e, nell’interstizio del linguaggio, nelle pause, nei momenti di sospensione, veicola, come sovrappiù di vita, un’energia inaspettata che porta il credente verso il punto più alto di sé in cui è possibile incontrare Dio. Quel Dio che rifiuta di lasciarsi raggiungere nel fuoco, nell’uragano, nello Spirito stesso, ma che attende l’uomo nella “voce sottile del silenzio”, com’è detto nel biblico Libro dei Re (I, 19, 12).

LA FORTUNA – Quando si seppe che Antonio aveva “vinto” tutte le “voci” cominciarono ad andare a lui come pellegrini bisognosi di risanare una qualche ferita dell’ anima. Andarono giovani desiderosi di imitarlo. Andarono sacerdoti ai quali alcune parti del Vangelo apparivano esigenti. Andarono i lussuriosi con l’ansia di apprendere come imporre il silenzio alla carne. Andarono teologi inquieti per chiedergli perché Dio “haster panin” (nasconde il volto) e getta l’uomo in mezzo al mondo lasciandolo libero di salvarsi o di perdersi. L’imperatore Costantino il Grande lo chiamò spesso per chiedergli consigli. Ne chiesero anche i Padri del Concilio di Nicea (325), il primo concilio ecumenico del mondo cristiano, in cui si discussero importati questioni teologiche.
Infine morì un 17 gennaio. Era l’anno 356 e lui aveva centosei anni. Fu subito famoso in tutto l’Oriente. Dopo l’anno Mille lo divenne anche in Occidente. L’intera cristianità lo considera il fondatore del monachesimo e il primo degli Abati, perché fu lui a creare, dando regole precise, famiglie di monaci guidate da un padre spirituale (=abbà).

In Egitto si moltiplicarono i siti eremitici. Molti conventi furono costruiti in sua memoria. Uno dei più famosi è il Convento di Sant’Antonio, sorto a duecento metri dalla grotta dell Santo. I suoi affreschi sono stati recentemente restaurati da specialisti italiani.

Le sue ossa furono donate (?) al crociato francese Joselin che le portò nel Delfinato. Si era intorno all’anno Mille. Nel 1070 il conte Guigues di Didier costruì una chiesa presso Vienne e vi traslò le ossa. Questo santuario di Provenza visse in crescendo il fenomeno dei pellegrinaggi perché sempre più aumentarono i poveri afflitti dal “fuoco sacro”, determinato dal consumo del pane fatto con segala cornuta. Anche l’altro malanno, l’herpes zoster, chiamato “fuoco di sant’Antonio” fece accrescere l’affluenza. Lui, il Santo eremita, li “spegneva”, cioè li guariva entrambi. E su questo potere taumaturgico nacque la fortuna dell’Ordine Ospitaliero di Sant’Antonio Abate La sua fondazione ebbe un livello iniziatico ed esoterico simile a quello dei Templari.
Si diffuse subito in molti paesi d’Europa e nei territori delle Crociate. Le sedi più importanti nel Sud Italia furono a Sarno (Salerno) e a Bari, porto d’imbarco per la Terrasanta.
Papa Bonifacio VIII, nel 1298, trasformò l’Ordine dandogli un’impronta esclusivamente ecclesiastica. Nacque così l’ Ordine di Sant’Antonio. La dedizione ai malati degli Antoniani col tempo fu però offuscata da interessi che li distrasse dal Vangelo e per questo vissero una lunga crisi che li portò ad essere assorbiti dall’Ordine dei Cavalieri di Malta nel 1776.
In Basilicata aprirono ad Oppido Lucano una Commanderie (=ospedale più convento), chiuso nel 1780. Rimane soltanto una parete con un affresco che riproduce alcune scene di vita della Basilicata del Cinquecento (da non confondere col vicino convento francescano di sant’Antonio da Padova).
A livello popolare, il santo eremita egiziano divenne tuttavia famoso in tutta Europa proprio in virtù. dei suoi miracoli “terapeutici”. Non basta. La storia di Antonio parla del suo potere di ammansire gli animali del deserto. I frati antoniani amplificarono tale notizia e fecero del Santo il protettore degli animali. Quando capirono che la “principale” medicina per guarire l’herpes zoster era il lardo del maiale, crearono allevamenti di questo animale e una nuova iconografia del Santo in cui collocarono il maialino ai suoi piedi. Gli attribuirono anche altri tre simboli: il bastone a forma di Tau (simbolo dell’Ordine), il campanello (simbolo del pellegrino ammalato) e la fiamma (inizialmente simbolo del fuoco da lui rapito al demonio e dopo della malattia che porta il suo nome).
L’iconografia popolare divenne molto diffusa tanto che anche nelle stalle europee veniva posta un’immagine del Santo a protezione degli animali. Ma questo personaggio intrigò anche l’arte colta, la quale crea grandi capolavori. Il più celebre è del tedesco Matthias Grubewald, della prima metà del Cinquecento. In precedenza se ne erano occupati il Beato Angelico (1436),v Pisanello (1450). Successivamente lo dipinsero Diego Velasquez (1635), Paul Cézanne (1875), Salvador Dalì (1946). Solo per citarne alcuni.
E’ interessante notare anche che non soltanto fiorì una ricca letteratura popolare intorno ad Antonio, sia in Occidente che in Oriente, ma anche Gustave Flaubert scrisse il romanzo “Le tentazioni di Sant’Antonio” (1874), di poco inferiore al suo capolavoro (Madame Bovary).
Un Santo dunque che nella sua vita e nella sua fortuna ha insegnato che il valore dell’uomo non risiede nella sua imperfezione bensì nella sua perfettibilità. E che uno degli strumenti efficaci per raggiungerla è il silenzio.

Parla l’arcivescovo di Acerenza, mons. Ricchiuti
«Binomio fra arte e fede nel nome del Santo»
di Ugo Maria Tassinari
La figura di Antuono, l’uomo che accetta la sfida del deserto, ha una forte attrattiva nei tempi convulsi della modernità.
Monsignor Ricchiuti, arcivescovo di Acerenza, illustra le ragioni religiose e la forza spirituale del progetto di costruzione degli itinerari antuoniani in Basilicata.
«In prima istanza – spiega l’arcivescovo – è evidente che c’è un rapporto biunivoco nel binomio tra fede e arte, un rapporto che si alimenta a vicenda. Dobbiamo poi considerare che dietro le apparenze del benessere e del progresso, per altro messe in discussione dall’attuale crisi finanziaria internazionale, c’è una grande insoddisfazione nelle persone. L’uomomoderno è assetato di trascendenza. La scelta di Antuono, che abbandona i beni materiali e sceglie il silenzio, è affascinante e ancora dice molto».
Per monsignor Ricchiuti la realtà della Basilicata «In qualche misura allude a questa scelta. Il silenzio dei nostri piccoli centri, i grandi spazi aperti e spopolati, sicuramente favoriscono il dialogo con la propria anima. Ma il fondatore del monachesimo nella nostra tradizione è anche legato imprescindibilmente all’agricoltura.
E’ il Santo degli animali, ma anche della terra: e infatti a Genzano, che lo ha come patrono principale, il 17 gennaio non si benedicono solo gli animali ma ci si reca anche ai quattro punti cardinali per benedire le terre».
L’arcivescovo sottolinea il valore sociale di questa tradizione: «Il ritorno alla terra, in questi tempi duri di crisi produttiva industriale, può essere uno dei motori di sviluppo del Sud. Ma io non penso ovviamente
a un ritorno al passato, a una stagione di soprusi e arbitri ma a una realtà produttiva che generi benessere e stabilità ».
La figura di Antuono però è legata imprescindibilmente anche alla malattia: e infatti il suo ordine religioso era a scopo ospedaliero: «La malattia è espressione della condizione di fragilità umana – conclude mons. Ricchiuti – era chiaro già nella Genesi che è legata alla perdita della condizione di grazia. Come la morte: dalla
polvere alla polvere. E infatti Gesù, quando opera i miracoli, agisce su persone che in qualche modo sono percepite come segnate. Così la Chiesa, che per riconoscere la santità cerca la verifica di un
miracolo di guarigione, nei santi taumaturghi come Antuono vede la salvezza dei malati come amore di Dio per le sue creature e continuità dell’opera di Cristo».

Fonte : il quotidiano della Basilicata 17/05/2010

Il rito della Spina o Battesimo della Spina

Il battesimo della spina
Foto da EZUM VALGEMON “Il passaggio della spina” Esplosione di devozione ed attaccamento filiale alla Madonna è il cosiddetto “Passaggio della Spina”, praticato il 25 Marzo e il Lunedì di Pasqua. E’ un rito propiziatorio, diffusosi a Baragiano intorno al XV sec. , sopravvivenza forse di antichi culti agresti , praticato all’inizio della primavera. Può avere origini albanesi oppure aver tratto modello dall’area pugliese (questa usanza si incontra a BARILE- GINESTRA-MASCHITO). “…Al contrario, resistono al tempo molti riti tradizionali, le feste
patronali, la liturgia bizantina, culti popolari arborei (recentemente l’Anspi di Barile ha rivitalizzato “il passaggio della spina” “shkuar nga drizet” presso la seicentesca Chiesa agreste di Costantinopoli.” (1) I protagonisti del rito sono i bambini nell’età compresa dai due ai dieci anni che i genitori intendono mettere sotto la protezione della Madonna. La cerimonia si svolge per tre anni consecutivi e consiste nel far passare i bambini nudi sotto un arco di spine, “la scocca” preparata precedentemente, dalle mani di un uomo a quelle di una donna che fungono da padrino e madrina, quando suona la campanella preannunciare che nella cappella dell’Annunziata ha luogo l’Elevazione. Il bimbo viene passato sotto la spina per sei volte, tre con l’addome in su e tre con l’addome in giù,mentre il compare dice “teh, cummà” e la comara risponde “Mo, cumpà”. Al termine del rito i bambini, avvolti in un lenzuolo, vengono condotti in chiesa per essere rivestiti ai piedi della Madonna e invocare la benedizione. E’ cura poi dei partecipanti di innestare le spine che sono servite per formare l’arco proteggendole con muschio e corteccia di arboscelli, nella credenza che, in caso di attecchimento, la vita del bambino sarebbe assente da malumori, in coso di mancata presa, si verificherebbe il contrario. Dallo svolgimento della cerimonia si evince la commistione tra elementi ecclesiali e pagani, e fu proprio il profilo superstizioso della tradizione a provocare l’intervento dell’autorità ecclesiale che più volte volle mettere i fedeli in guardia dal prestarsi a simili pratiche che oltre a mettere in pericolo la salute dei bambini, producevano subbuglio in chiesa. Il primo intervento venne dal vescovo di Potenza Ignazio Maroldo nel 1890. Successivamente si chiese addirittura l’intervento della forza pubblica per impedire questa forma di devozione. Nonostante gli impedimenti il rito continua ad essere praticato, sia pure con più cautela, introducendo l’usanza di benedire i bambini alla sera nella cappella dell’Annunziata. E’ vero però che qualche bambino al mattino “si passa” e alla sera riceve la benedizione. L’usanza del “passaggio” non è dunque ancora del tutto sradicata. Altra descrizione di quel che avviene a Baragiano è questa: La sera di Pasqua… “la statua della Vergine viene portata in processione in spalle alla cappella dell’Annunziata dove rimane sino al 25 marzo dell’anno successivo. Durante la festa si svolge il rito del passaggio della spina. Lungo la strada detta Fontanella, nei pressi del santuario, ogni fedele sceglie un rovo, lo spacca a metà e attende il brillio del mortaretto che annuncia lo svolgimento in chiesa dell’Elevazione. A questo punto il padrino e la madrina fanno passare attraverso un arco di spine il figlioccio prescelto per suggellare il rito di comparatico”.(2)
Comunque al di là delle descrizioni giunte Il passaggio della spina, ha origini iraniche, e non albanesi, esauritosi nll’altipiano dell’ Iran, è sopravvissuto a lungo nelle aree balcaniche e slave. Gli arabi lo abolirono in Sicilia perchè lo trovarono osceno
La foto indica una variante, anzichè far passar il fanciullo sotto un arco, lo si fa attraversare in un ramo di rovi inciso a metà.
Fonte: http://www.icbaragiano.it/progetti/PARTE%20II_file/page0010.html http://maschito.altervista.org/maschito/paese/storia/insediamenti/index.htm http://www.facebook.com/photo.php?pid=376363&id=1072450701http://www.ilcomuneinforma.it/viaggi/3787/festa-della-madonna-di-costantinopoli/ http://forum.pizzicata.it/viewtopic.php?f=44&t=1432 http://www.basilicata.cc/lucania/baragiano/index0.htm

La Passione Del Grano


8 marzo 1607: il principe Pignatelli, nell’acconsentire alla richiesta di alcuni coloni provenienti da Trebisacce, Castelsaraceno e Viggianello di abitare e coltivare terre in località detta San Georgio,lo fa alle sue condizioni, imponendo tutta una serie di pesi fiscalie di obblighi, fra cui il divieto di possedere terreni coltivati a grano.

E’ vero che possono coltivarlo nelle terre del principe, ma il corrispettivo è ben salato e la terra non rende abbastanza per farvi fronte. Meglio coltivare le vigne di proprietà e poi esercitare la capacità di esperti mietitori per conto terzi. E’ quanto faranno i discendenti dei primi coloni.
Nell’animo, però, resta il desiderio della ricchezza proibita.

I coloni sognano di spogliare il signore della sua ricchezza, di abbassarlo almeno una volta al proprio livello, di dominarlo anche solo simbolicamente.
Su questa base, secondo alcuni studiosi di antropologia, si sviluppò il gioco o danza della falce, che, ammantato di risvolti sociali, rappresenta in forma simbolica la rivolta, la contiene entro confini fisicamente non pericolosi, filtra le pulsioni attraverso sistemi simbolico-culturali.
E’ la tesi che emerge dal commento che accompagna le immagini riprese a San Giorgio Lucano durante la storica spedizione di Ernesto De Martino in Lucania nel 1952. Le penetranti fotografie
di Franco Pinna e le successive immagini dai toni fortemente marcati del cortometraggio di Lino Del Frà si prestano bene a fare da supporto.

L’interpretazione si è consolidata nel tempo e la ritroviamo anni dopo: “La danza della falce è una vera e propria rievocazione storica, alla maniera contadina, di due secoli di feudalità oppressiva che è ancora viva nel ricordo dei più vecchi di San Giorgio Lucano”.
“L’azione, che si svolge verso il tramonto, ha per attori i mietitori che si accingono a falciare l’ultimo pezzo di messe, la legante cioè la donna che raccoglie le spighe falciate per legarle insieme e formare la gregna, alcuni zampognari e il caprone, che è sempre il proprietario del campo… Quando i mietitori lo scorgono, accelerano il ritmo del lavoro e, raggiuntolo, lo immobilizzano con le falci che ora, terminata la mietitura, diventano arma di vendetta e di riscatto.
Il riscatto consiste in una bevuta di vino collettiva.
(Relazione del prof. Gaetano Stigliano al Primo Congresso internazionale delle tradizioni popolari, Metaponto Lido, 1986 ).

…Considerate una delle più espressive manifestazioni della civiltà contadina, un documento della più autoctona tradizione popolare, sono state oggetto di ripetute indagini, studi, documentazioni
fotografiche e riprese filmiche. Ai lavori di De Martino e Pinna si aggiungono il cortometraggio di
Lino Del Frà del 1960, le riprese di Folco Quilici del 1967…
L’azione, già nel documento del 1952, si compone di due momenti distinti: la cattura-uccisione del capro e il gioco vero e proprio, che coinvolge anche il padrone:
“Il tema centrale è il mascheramento dell’azione del mietere: i mietitori cioè si comportano come
se l’operazione che essi compiono non fosse la mietitura, ma una battuta di caccia al capro.
Un vecchio contadino fa da capro: due mazzetti di spighe tenuti fra le labbra, una pelle di capro legata alla schiena, i falcetti impugnati all’altezza della testa in modo da dare l’immagine delle corna, occhi sbarrati di animale braccato…”
“I mietitori avanzano al suono della zampogna, mimando la mietitura: si muovono a ritmo,
come se danzassero, oppure si arrestano improvvisamente, assumendo qualche atteggiamento determinato…”
“Ben presto la pantomima si complica: i mietitori fanno le viste di combattersi fra loro, variamente raggruppandosi a due o tre, ed eseguendo con la falce varie figure agonistiche.”
“L’eccitazione cresce, finché non si rivolge al padrone, che è cercato, inseguito e catturato…”
“Intorno al padrone i mietitori eseguono la solita pantomima della mietitura, e quindi con la punta della falce lo spogliano…”
“A spoliazione avvenuta, vengono fatte circolare sul campo mietuto alcune bottiglie di vino.”
(Ernesto De Martino, La messe del dolore in Furore, Simbolo, Valore, Il Saggiatore, Milano 1962).


Foto di Franco Pinna , 1959

fonte: http://www.prolocosangiorgiolucano.it/Gioco_della_Falce.pdf

Blog su WordPress.com.